Obama va alla guerra sul fisco i repubblicani: “No a nuove tasse”

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NEW YORK — Il risveglio per Barack Obama è brutale. Dopo l’euforia di Chicago, ecco il cinismo di Washington. Sarà  per questo che il presidente si è rinchiuso nel silenzio, il primo giorno del suo ritorno alla Casa Bianca, salvo una lunga serie di telefonate con alcuni leader stranieri. Tra loro, però, non ci sarebbe ancora stato il premier italiano Mario Monti. Silenzio per studiare come divincolarsi dall’abbraccio della politica vecchio stile, quella che lo aveva spesso paralizzato negli ultimi due anni.
Il cinismo lo incarna alla perfezione il repubblicano John Boehner, presidente della Camera: al trionfo di Obama risponde con “business as usual”, niente è cambiato sotto il sole della capitale. «Non accetteremo rialzi d’imposte sui contribuenti più ricchi», ha detto Boehner all’indomani del voto, forte del fatto che i repubblicani hanno salvato il 6 novembre la loro maggioranza alla Camera dei deputati. Quindi la destra mantiene quel potere di ostruzione sulle leggi di tassazione e di spesa, grazie al quale bloccò gran parte dell’agenda riformista di Obama nell’ultimo biennio.
Lo scontro sulle tasse ai ricchi torna in primo piano, proprio mentre Wall Street prosegue il calo e si “lecca le ferite” del dopo-voto: mai prima d’ora nella storia, la finanza americana aveva puntato così tanti capitali in una sola elezione, pur di far fuori il presidente. Lo schieramento massiccio dei banchieri con Mitt Romney è un errore di calcolo monumentale, che ridimensiona di colpo l’influenza politica di questa lobby. Ma gli interessi delle grandi lobby economiche continuano ad essere uno dei “fari” su cui si orienta il Partito repubblicano, nell’attesa di una resa dei conti interna sulla disfatta del finanziere Romney.
Nel frattempo la stessa vittoria del 6 novembre diventa l’oggetto di una battaglia. È la guerra delle interpretazioni divergenti: la sinistra esorta il presidente a sfruttare la propria popolarità  interpretando il voto come un “mandato” per grandi riforme; la destra tenta già  un’operazione revisionista, e a sole 48 ore “riscrive” la storia del 6 novembre all’insegna dello status quo, un voto che ha confermato gli equilibri precedenti.
Ora però si apre un gioco nuovo, l’emergenza economica s’impotura a Obama e al Congresso con un’urgenza senza precedenti. E i rapporti di forza sono comunque sconvolti. Il “conto alla rovescia” dice meno 53. Sono i giorni che mancano alla fine dell’anno e all’Apocalisse fiscale. In realtà  i giorni
utili per intervenire sono ancora meno, se si tolgono Thanksgiving e Natale. Lo scenario-catastrofe è questo: in assenza di un’intesa larga, bipartisan, scatta automaticamente una maxi-austerity a fine anno. Sono 700 miliardi di dollari fra tagli di spese e rialzi di tasse “indiscriminati”. 700 miliardi che verrebbero sottratti di colpo al potere d’acquisto dell’economia americana, con un impatto rovinoso sulla crescita e sull’occupazione. Potrebbe addirittura avere inizio una nuova recessione, avverte l’autorevole Congressional Budget Office. Che, viceversa, “benedice” il piano del presidente di rialzare le tasse ai super- ricchi, spiegando che l’impatto di questa misura sulla crescita sarebbe quasi impercettibile.
La genesi di quella “mannaia automatica” risale proprio allo stallo nei rapporti tra la Casa Bianca e la maggioranza repubblicana alla Camera. In uno dei ripetuti bracci di ferro, la destra bloccò l’autorizzazione al rifinanziamento del debito pubblico, e questo rischiava di chiudere gli uffici federali, sospendere il pagamento delle pensioni. Obama trovò una via d’uscita del tutto provvisoria, una sorta di armistizio fondato sulla “mutua distruzione”. Il compromesso prevedeva pesanti tagli di spesa pubblica come piacciono alla destra (ma con l’inclusione del Pentagono, che invece è un tabù per i repubblicani); dall’altra parte il non-rinnovo di tutti i tagli di tasse concessi da George Bush, che vengono alla scadenza naturale con la fine di quest’anno. È questo dispositivo, la mazzata da 700 miliardi a fine anno.
Tutti sono d’accordo che sarebbe una catastrofe, e Obama nel suo discorso della vittoria a Chicago ha messo «riduzione del deficit e riforma fiscale» al primo posto nella sua agenda. I repubblicani non demordono: la riforma fiscale che vuole il presidente non può includere un rialzo di aliquote sui ricchi. La giustificazione ufficiale è che tra questi ricchi ci sarebbero tanti «piccoli imprenditori che creano lavoro». Obama si toglie i panni dell’eroe, e riveste quelli molto più dimessi del negoziatore. Nel primo mandato i suoi sforzi naufragarono contro l’intransigenza della destra che aveva — esplicitamente — una priorità : abbattere il presidente. Ora che quel piano è fallito, nei ranghi repubblicani la crisi è reale, e il potere contrattuale del presidente si accresce in proporzione.


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