POLVERIERA ARABA

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ED È pericoloso accendere fuochi in prossimità  di una polveriera. Eppure è quel che hanno fatto e fanno i due contendenti. In un anno più di 750 razzi partiti da Gaza sono piovuti sul Sud di Israele, ma quelli risultati micidiali (tre morti nel piccolo centro di Kiryat Malachi), sono stati lanciati dopo che un missile aveva ucciso Ahmed al-Jabari, capo militare di Hamas, mentre guidava la sua automobile in una strada di Gaza. Dopo una lunga, rischiosa routine, dopo una contenuta ostilità , l’omicidio mirato ha riacceso il conflitto.
Nei quattro anni trascorsi dall’inverno 2008-9, quando l’operazione israeliana (Piombo fuso) fece mille trecento morti nella Striscia di Gaza, provincia separata e non occupata della Palestina, sono intervenuti tanti mutamenti. Mi limito ai due più rilevanti prodotti dalla “primavera araba”: i Fratelli musulmani sono arrivati al potere nel vicino Egitto e la guerra civile infuria nell’altrettanto limitrofa Siria.
La destituzione al Cairo di Hosni Mubarak, il raìs con il quale per Gerusalemme era facile accordarsi, e l’elezione al suo posto del presidente Mohamed Morsi hanno creato seri problemi tra le due capitali. Ed è finito l’isolamento di Gaza. Il movimento Hamas, che la governa, è infatti un’emanazione, sia pure distinta, della Confraternita dei Fratelli musulmani al governo al Cairo, e dalla quale Morsi proviene. Oltre ai già  difficili rapporti con l’ex alleata Turchia, Israele deve adesso gestire un’agitata relazione, o una pace ancora più fredda, con l’Egitto al quale è legato dagli accordi di pace, conclusi a Camp David nel 1978.
I raìs non erano troppo presentabili, ma avevano una qualità : erano interlocutori che non dovevano tener conto delle opinioni dei sudditi, disciplinati da poliziotti e soldati. Il dialogo con loro era diretto. L’egiziano Morsi, eletto al suffragio universale diretto, deve adeguare, almeno in parte, la sua sensibilità  di fratello musulmano moderato alle esigenze dei concorrenti salafiti, musulmani più radicali, che chiedono di rivedere i rapporti con Israele. Ed esigono più solidarietà  con Gaza governata da Hamas.
E cosi Morsi non è rimasto immobile come il predecessore Mubarak. Ha interpellato la Casa Bianca. Ha richiamato l’ambasciatore da Israele. Si è rivolto alla Lega Araba e al Consiglio di Sicurezza. Ha pronunciato severe condanne alla televisione. E oggi manda il suo primo ministro sul posto, a Gaza, con l’incarico di verificare i danni subiti dalla popolazione, di rendere omaggio ai morti (finora ne sarebbero stati contati diciannove) e di studiare l’invio di aiuti urgenti. In realtà  si tratta di una visita con un alto valore politico. L’Egitto dimostra in concreto la sua solidarietà  all’avversario di Israele. Un gesto che equivale quasi a una sfida. Gli israeliani oseranno bombardare Gaza durante la visita del primo ministro egiziano? Una crisi seria tra Egitto e Israele spezzerebbe i precari equilibri mediorientali. Barack Obama ha dedicato nelle ultime ore non poco del suo tempo nel tentativo di placare gli animi degli uni e degli altri. Ha dosato le parole. Ha riconosciuto il diritto di Israele a difendersi dalla pioggia di razzi, ma ha invitato a moderare le reazioni. E ha ascoltato a lungo il presidente egiziano, indignato ma non minaccioso.
In quanto alla Siria è un vulcano in eruzione che rischia di travolgere l’intera regione, ed è comunque una fonte di violenza alle porte di Israele. Oltre le alture del Golan, confine contestato tra lo Stato ebraico e la Siria frantumata, infuria una mischia in cui anche la super- esperta intelligence israeliana deve stentare a riconoscere amici e nemici. E deve faticare a evitare le infiltrazioni. Perché ad Aleppo, a Homs, e nei paraggi della stessa Damasco, operano gruppi armati di varie tendenze. Dai
laici agli islamisti moderati ai jihadisti. Gli iraniani, irriducibili avversari di Israele, appoggiano il regime di Damasco, e al tempo stesso sono amici di Gaza. Ma anche il ricco Qatar, che appoggia i ribelli, si è manifestato come un benefattore di Gaza. E questo vale per l’Egitto e la Turchia, potenze sunnite e nemiche del regime sciita di Bashar el Assad. Del quale anche gli americani, amici e protettori di Israele, ma non di Hamas, auspicano la destituzione.
Israele si trova dunque al centro di un panorama mediorientale politicamente imprevedibile, in cui non è facile orientarsi. E per un vecchio riflesso condizionato alza il tradizionale “muro di ferro”. Sfodera la sua forza. L’attacco all’Iran è per il momento rinviato sine die.
La conferma di Barack Obama ha allungato i tempi. Benjamin Netanyahu sperava in una vittoria del suo avversario, un falco come lui; e tuttavia Obama non ha tenuto conto della sua dichiarata ostilità  durante la campagna elettorale. E ha subito dimostrato che il legame degli Stati Uniti con Israele non poteva essere in alcun modo inquinato. Ma per lui il problema nucleare iraniano richiede più pazienza.
E quest’ultima, la pazienza, non è una virtù di Netanyahu. Il quale ha sentito subito il bisogno non solo di far cessare la pioggia di razzi proveniente da Gaza, ma anche di dimostrare al Medio Oriente agitato e imprevedibile che Israele sa reagire con determinazione, che né la sua volontà  politica né la sua forza militare si sono arrugginite. Il messaggio ci sembra indirizzato all’Iran, all’Egitto, alla Siria, non unicamente alla piccola, fastidiosa, ma non più tanto isolata Gaza. E tra i destinatari ci sono i palestinesi in generale, quelli che tramite l’incruento Abu Mazen, capo dell’altra Palestina, quella occupata, tra dieci giorni chiederà  ancora una volta di essere rappresentata più degnamente all’Onu. Inoltre, come quattro anni or sono, ai tempi dell’operazione “Piombo fuso”, Israele è alla vigilia di nuove elezioni. E la fermezza gioca in favore di Netanyahu. Gli imperativi tattici si confondono con quelli elettorali. E per il momento sommergono i rischi reali.


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