Quei malati sul lettino costretti a andare in piazza

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Il governo Monti, nella sua breve vita, ha potuto vantare – con buone e riconosciute ragioni – un netto miglioramento di immagine del nostro Paese, dissestato nei conti e nei comportamenti. Anche per questo dovrebbe riflettere sul drammatico calo di immagine che quelle barelle, quei lenzuoli, quei respiratori, quei malati, esposti alla piazza come se avessero perduto la loro protezione domestica, hanno consegnato all’opinione pubblica.
Si trattava di trovare circa duecento milioni di euro da destinare al fondo per la non autosufficienza (che non sono pochi, ma certamente non tanti da ribaltare un bilancio statale) per garantire anche a poche migliaia di famiglie, colpite da una malattia implacabile, qualche conforto economico in più che sostenesse la lunga assistenza dei loro cari. Nonostante ripetuti, disperati avvertimenti, si è dovuti arrivare alla drammatica manifestazione di ieri perché un rappresentante del governo garantisse infine alla piccola e combattiva comunità  degli ammalati di Sla il reperimento di quei fondi, che alleviavano appena (e appena allevieranno) la dura condizione di una cura che spesso costringe chi la esercita a rinunciare al lavoro e chiudersi in casa, al capezzale del malato.
Se è stato necessario arrivare fino allo sciopero della fame e al minacciato suicidio, significa che c’è grande confusione, nei Palazzi dove si fanno i conti, sulle famose “priorità ” che la politica, per suo mestiere, avrebbe il compito di individuare e di fare rispettare. Al di sopra o meglio al di fuori di ogni tecnicalità  e di ogni sapienza contabile, esiste un pragmatico buon senso (le famiglie degli invalidi lo conoscono bene) che mette al primo posto la cura, e tutto il resto a seguire. Se, quando la crisi morde, si deve rinunciare a qualcosa, non è certo all’assistenza, a quanto può dare sollievo al malato e di conseguenza a chi ne scruta la sofferenza e veglia sulla sua sopravvivenza. La cura prima di tutto. Perché senza la cura, tutto il resto perde senso, valore, solidità . Di questo buon senso, che non richiede lauree né master in economia, è mancata traccia per parecchie settimane, da quando la voce degli ammalati di Sla e delle loro famiglie si è levata per denunciare che non avrebbero retto un taglio dei fondi, già  non cospicui, per l’assistenza; e da quando l’intera comunità  nazionale, davvero senza distinzione di opinioni politiche né di ceto sociale, conveniva sul fatto che un Paese che taglia le gomme alle carrozzine degli invalidi è un paese senza più speranza, e senza rispetto di se stesso.
Si capisce che il welfare, in tempi di crisi, sia un lenzuolo troppo corto. Ma che quel lenzuolo lasci scoperti i corpi esausti degli ammalati di Sla è un’idea insopportabile. Buona, tra l’altro, per ridare fiato e legittimità  alle voci più ostili e rabbiose, che sottolineano a quante poche rinunce sia disposta la cosiddetta “casta”, e a quante invece debbano sottoporsi, e proprio per mano della “casta”, i più deboli e i meno tutelati.
Un’ultima, amarissima considerazione non può non riguardare la beffarda sorte di chi (vedi il caso Welby) non viene messo nelle condizioni legali di scegliere la propria morte, o comunque l’interruzione della propria sofferenza; e viene moralisticamente invitato a volere/dovere sopravvivere comunque e in qualunque condizione; salvo poi tagliare i fondi destinati all’ipotetica “fine cura mai” che avrebbe comunque necessità  di sempre più denaro mano a mano che la malattia avanza e l’invalidità  si aggrava. Costretti a sopravvivere per legge, ma assistiti peggio di prima: davvero non si riesce a credere che sia così sadico, lo Stato italiano, di fronte alla sofferenza di cittadini coraggiosi e dignitosi, e delle loro coraggiose e dignitose famiglie. Le promesse di ieri (troveremo i soldi) sono molto importanti. Entro pochi giorni saranno verificabili. Nel frattempo, si spera che qualcuno, nel governo, rifletta su una pessima figura quasi certamente evitabile.


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Care amiche e cari amici, ho meditato a lungo e con insistenza. Alla fine mi sono convinto, senza incertezze, che non possiamo più continuare ad accettare che di fronte alla tragedia quotidiana che vive il carcere, si persegua una gestione rassegnata e contrassegnata dal tratto della normale amministrazione, quando la situazione è davvero insostenibile e richiede un cambio di passo visibile, una discontinuità  profonda. Insomma il tempo è della riforma. Senza incertezze.

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