Rumor di sciabole: un warlord annuncia il riarmo

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Il segnale più chiaro finora è quello riferito ieri dal New York Times: dice che Ismail Khan, uno dei più influenti tra i comandanti mojaheddin, all’inizio di questo mese ha riunito un migliaio dei suoi uomini non lontano da Herat, il capoluogo dell’Afghanistan occidentale che è anche la sua base di potere, e li ha esortati a riattivare le loro reti. Lui stesso ha cominciato a reclutare e riorganizzare le strutture locali. Il giornale newyorkese cita un videoclip dell’incontro, in un piccolo centro («Città  dei martiri») che Khan stesso aveva fatto costruire negli anni ’90 per dare case e terre alle famiglie dei combattenti caduti contro le truppe sovietiche, vi hanno partecipato i notabili più influenti della zona. «Siamo noi stessi responsabili di mantenere la sicurezza nel nostro paese e non lasciare che l’Afghanistan sia di nuovo distrutto» dai taleban, ha ripetuto in una conferenza stampa a Kabul lo scorso week end.
L’uscita di Ismail Khan suona sinistra, per chi ricorda la storia degli ultimi trent’anni: armati dagli Stati uniti (e dai ricchi paesi arabi del Golfo) per combattere le truppe sovietiche negli anni ’80, i comandanti mojaheddin si sono poi dilaniati in una sanguinosa guerra civile nella prima parte dei ’90, prima di essere sbaragliati dai Taleban che venivano dai campi profughi pakistani (anche loro «figli» della guerra antisovietica) a metà  del decennio. Quando i bombardamenti Usa hanno chiuso il regno dei Taleban alla fine del 2001, i mojaheddin sono diventati il pilastro del «nuovo» Afghanistan sostenuto dalle potenze occidentali, quasi un simbolo dell’unità  del paese. Ciascuno ha conservato la propria area di influenza (Ismail Khan fu fatto governatore di Herat, il suo «feudo»: solo nel 2004, per limitare il suo strapotere, Karzai gli ha offerto un ministero nel governo centrale) e ne ha approfittato per ammassare grandi fortune (come si spiega in questa pagina).
Ora Khan, attuale ministro dell’energia e dell’acqua, mette fine alla finzione a cui tutti gli sponsor occidentali hanno voluto credere. Certo, lo stesso Ismail Khan ha cercato di correggere il tiro: nella conferenza stampa a Kabul giorni fa ha precisato che il suo appello non era una sfida al governo centrale: ma «ci sono zone del paese dove le forze del governo non possono operare, e in quelle zone devono subentrare le forze locali». (Non è stato convincente però: i media a Kabul hanno riferito in modo critico la notizia, e l’attuale governatore della provincia di Herat, Daud Shah Saba, ha definito illegale il suo tentativo di riarmarsi). Del resto, un altro noto «warlord», Muhammad Qasim Fahim, comandante tajik e attuale primo vicepresidente, in settembre diceva: «Se le forze di sicurezza afghane non sono capaci di combattere, chiamate i mojaheddin». Ismail Khan è stato solo più esplicito.


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