Sandy, la metafora del disastro

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E’ verosimile e del tutto probabile che fenomeni climatici anche più devastanti si possano ripetere a breve. Non si sa, né si può sapere con un margine sensato di probabilità , quanti, in che forma, quando dove; magari anche lì dove Sandy ha appena lasciato un paesaggio devastato peggio che da un bombardamento. 
Ma Sandy mostra anche in modo lampante – tra tante altre cose – che la dottrina che ha portato al governo Mario Monti, e lo stuolo di professori che ne gonfiano i ranghi, non vale un fico secco ed è solo una manifestazione di grande prepotenza e di grande ignoranza, di una vera e propria “dittatura dell’ignoranza”. Ignoranza di ciò che sta succedendo o che sta per succedere nel mondo reale, quello della vita quotidiana di tutte e di tutti, e non nell’iperuranio dello spread e dell’alta finanza, che comunque anche Monti e i suoi sodali italiani ed europei – molti altri sparsi nel mondo – non sanno o non vogliono mettere sotto controllo.
Un’ignoranza dei vertici che tracima e si diffonde su tutti i fabbricatori di opinione pubblica: giornali e Tv che per occuparsi di Casini e Alfano hanno tolto dalle prime pagine, o addirittura ignorato, il più grande disastro climatico della storia mentre è ancora in corso.
Se si scende su questa terra dal cielo dei cicloni o da quello delle tempeste finanziarie il risultato non cambia. In un solo giorno Sandy ha provocato sulla costa orientale degli Stati uniti un disastro analogo, ma dieci volte maggiore, di quello che le politiche finanziarie adottate dall’Unione europea stanno infliggendo alla Grecia. Un paese dove metà  della popolazione non ha più la luce elettrica e usa le candele non perché tre o quattro centrali nucleari sono state allagate o perché i cavi elettrici sono andati in corto circuito, ma perché gli utenti non possono più pagare le bollette e l’azienda, destinata alla privatizzazione se solo qualcuno vorrà  comprarla, taglia gli allacci. Dove l’acqua potabile spesso non arriva più non perché le pompe sono bloccate, ma perché i gestori del servizio non hanno più il denaro per farlo funzionare. 
Dove molti non hanno più niente da mangiare non perché le strade sono interrotte, ma perché il circuito economico si è fermato e per chi è rimasto senza soldi non c’è più niente né da vendere né da comprare.
Il cinismo con cui governo e ministro del lavoro (iena plorans) si sentono autorizzati a sacrificare diritti, dignità  e vita non solo di milioni di giovani e di lavoratori, ma persino dei portatori di handicap nelle scuole e dei malati di sla (e che cosa resta più della loro vita?) che manifestano davanti ai palazzi del potere. E’ un anticipo di quello che succede in Grecia, che Monti chiama “risanamento”, ma dove negli ospedali non si opera e non si ricovera più per mancanza di medicine e di presidi sanitari e molti si procurano da mangiare frugando nei cassonetti. E fa il pari con l’assoluta indifferenza nei confronti della crisi ambientale planetaria di cui il governo ha dato e continua a dar prova. A cominciare dal discorso di presentazione del suo programma al Parlamento, in cui la parola ambiente non è mai stata nemmeno nominata (e nessuno, tranne il manifesto, lo aveva fatto notare). Non è una svista: nel frattempo il ministro Passera programma di trivellare il paese come una groviera, alla ricerca di poche gocce di petrolio che al massimo ne coprirebbero il fabbisogno per un anno o poco più; progetta di farne il perno (hub) del metano importato per tutta l’Europa da tutto il resto del mondo, finanzia con il risparmio postale chilometri di autostrade moltiplicando congestione, inquinamento, dissesto idrogeologico e costi del trasporto. Sprofondando tutti in un’economia fossile senza futuro. 
Ma soprattutto il governo lascia andare in malora i maggiori stabilimenti produttivi del paese, perché risanarli costa troppo caro, perché non hanno più mercato, perché ciascuno può andare a investire dove vuole, perché conviene di più produrre o comprare armi che autobus e treni, perché i capitali stranieri arrivano in Italia solo per spremere risorse pubbliche e portarsi via know-how . E solo se attirati dagli altissimi livelli di corruzione che la legge appena varata non fa che peggiorare: vedi Alcoa, Jabil, Lactalis, Lucent, Acelor-Mittel, Electrolux, Sevestal, Alstrom, Fiat, ormai americana. Con gli stabilimenti vanno in rovina i lavoratori non più protetti nemmeno dalla cassa integrazione o dallo “scivolo”; e con loro un kow-how frutto di anni di cooperazione. Non c’è certo motivo di ritenere che tra un anno o due – quando dovrebbero ritornare “ripresa” e “crescita”, invocate dal governo e servilmente riproposte da tutti i media – quei lavoratori torneranno in fabbrica, quel patrimonio di conoscenze tornerà  a funzionare; o altre imprese, nate per miracolo dalle ceneri di quelle chiuse o soffocate, avranno mezzi ed esperienza e piani per rimettere in sesto l’economia del paese.
Perché, e qui sta la colpa più grave del governo e di tutte – tutte – le forze che lo sostengono, l’ambiente cancellato dalla loro agenda, soprattutto per ignoranza – è un fattore cruciale. Prenderlo in carico è l’unico modo per garantire un futuro alle imprese in malora, e ai lavoratori di cui si sta facendo carne di porco. Significa lavorare a una loro riconversione a quelle produzioni che favoriscono la transizione verso un’economia sostenibile: in campo energetico, edilizio, nel settore della mobilità , in quello agro-alimentare, nella salvaguardia del territorio, nell’educazione e nella ricerca, nelle mille e mille piccole opere che possono garantire occupazione, sicurezza e vivibilità  a tutte le comunità , ma che al tempo stesso concorrono a mettere in sicurezza il pianeta. E che potrebbero instradare il nostro paese verso le tecnologie e soprattutto le soluzioni gestionali – complesse, articolate, altamente differenziate, necessariamente partecipate – indispensabili per promuovere questa transizione. E se non ora, quando?


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