Se l’Unione riparte da Germania e Italia

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Italia e Germania si allontanano perché le rispettive classi politiche non riescono a spiegare l’Europa ai cittadini, che è poi lo stesso motivo per cui il progetto europeo è così appannato. La Ue esiste nei vertici di Bruxelles, ma dov’è nel dibattito pubblico? Nel vortice della crisi, tra numeri esorbitanti su debiti e garanzie, si è persa l’idea del valore di quello che si sta cercando di salvare: «È come se ci spaventassimo dei preventivi per riparare il tetto della nostra casa e ci dimenticassimo di quanto vale, quell’abitazione». È Ruprecht Polenz, presidente della commissione Esteri del Bundestag, a parlare, al convegno «Germania e Italia nell’Europa che cambia: partner o antagonisti?» organizzato a Milano dall’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) in collaborazione con la Fondazione Corriere della Sera presieduta da Piergaetano Marchetti e moderato da Ferruccio de Bortoli.
Proprio Roma e Berlino, che sull’unione politica sono sempre state d’accordo, imponendo il modello della «ever closer union» dopo la guerra a scapito dei distinguo britannici, possono tornare oggi a essere il motore d’Europa, vista l’intesa tra Monti e Merkel e considerato quanto scricchioli l’asse franco-tedesco.
Magari riscoprendo lo spirito federalista di cui i due Paesi sono sempre stati custodi, nota l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato. Un federalismo che consentirebbe a Berlino di smettere di fungere da «parafulmine» e tornare a essere un partner tra gli altri, di certo il più potente ma liberato dal peso di una leadership mal digerita. Sì perché l’idea di una Germania che fa il bello e il cattivo tempo tra i Ventisette si basa su un assunto errato, sottolinea il segretario generale del ministero degli Esteri Michele Valensise, e cioè che Berlino quell’egemonia voglia esercitarla: «Semmai c’è il problema opposto». Quello di un Paese, spiega Valensise, fino a pochi mesi fa ambasciatore in Germania, «maturo e democratico» bloccato da una sorta di timore nei confronti della leadership. Forse perché in tedesco la parola per dirlo, Fà¼hrung, evoca troppi fantasmi. Lo ha ricordato anche il direttore di Die Welt Thomas Schmid, citando le parole storiche, considerato il passato di inimicizia e sofferenza tra Varsavia e Berlino, pronunciate un anno fa dal ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski: «Temo la potenza tedesca meno di quanto non cominci a temere la sua inazione».
Allo stesso tempo, è sempre Schmid a sottolinearlo, la Germania non può essere lasciata sola: l’Europa oggi ha bisogno di molti centri. E forse solo da una Unione «a grappoli» si può ripartire dopo quello che secondo Amato è stato il pasticcio di Maastricht. Se per l’ex ministro Antonio Martino l’unione monetaria è stato un errore e basta, e la politica di bilancio deve essere competenza degli Stati, per l’ex premier il problema è semmai che Maastricht fu un paradosso: il culmine dell’integrazione affidato al solo concerto intergovernativo: «Quando la Thatcher gridò “voglio indietro i miei soldi” e fu accontentata tutti sapevano che costituiva una anomalia. Oggi quella cultura anomala è diventata la regola». Gli interessi nazionali al centro, e l’interesse comune scompare.
Qualche speranza, secondo Polenz e de Bortoli, potrebbe arrivare dal voto europeo del 2014, con un auspicabile ruolo più diretto dei cittadini nella scelta del successore al presidente della Commissione europea José Manuel Barroso.
Quanto a Roma e Berlino, sul futuro delle relazioni c’è l’incognita del profilo dei prossimi governi. Anzi, di quello di Roma, perché se lo scenario italiano è ancora tutto da definire, ci sono pochissimi dubbi sul fatto che dopo la Merkel nel 2013 ci sarà  ancora la Merkel.
Marilisa Palumbo


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