“Tunisi 1988, ventisei minuti per uccidere” così il Mossad eliminò la mente dell’Intifada

by Sergio Segio | 2 Novembre 2012 9:09

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La missione è stata compiuta: Khalil Al Wazir, più noto con il suo nome di battaglia di Abu Jihad, numero due di Al Fatah che fondò insieme ad Yasser Arafat, è nel suo letto in un lago di sangue. Crivellato da 50 proiettili. La Browning 7,65 che teneva sul comodino è nel palmo della sua mano, ma non è riuscito a sparare nemmeno un colpo. Quell’azione audace del Mossad rivive oggi sulle pagine del quotidiano israeliano Yedioth Aronoth, perché il giornale dopo una lunga battaglia legale con la censura militare, pubblica un’intervista, postuma, al capo dei commandos israeliani che agirono quella notte. Per dodici anni Yediothha tenuto nel cassetto l’intervista che Nahum Lev diede al quotidiano nel 2000, prima di poterla pubblicare. Ed è la prima volta che Israele ammette che furono i suoi uomini a uccidere Abu Jihad nella capitale tunisina nell’ambito di un’operazione destinata a decapitare la dirigenza della prima Intifada, che era scoppiata nei Territori occupati nel dicembre del 1987, e di cui Jihad era uno dei dirigenti all’estero.
La missione — ha ricostruito il giornale â€” fu compiuta da 26 uomini del Sayeret Matkal, un gruppo d’élite dello stato maggiore dell’esercito israeliano, allora diretto da Moshe Yaalon, che oggi è ministro degli Affari strategici. A capo dei commandos c’era appunto il comandante Nahum Lev, che poi morì in un misterioso incidente di moto proprio quell’anno. Il commando sbarcato sulla spiaggia di Tunisi, si divise due gruppi: uno, quello di Lev, si diresse in macchina fino ai pressi della villa di Jihad. Accompagnato da un soldato travestito da donna in modo da sembrare una coppia in uscita la sera, in mano Lev ha una gran scatola di cioccolatini che nasconde una pistola con silenziatore. I due si abbracciano, scherzano. Si avvicinano e uccidono la prima guardia che è assopita in macchina davanti l’abitazione. Il secondo gruppo, ad un segnale convenuto, entra nella casa dopo aver forzato la porta di ingresso. Viene ucciso un secondo bodyguard palestinese e un ignaro giardiniere tunisino che dormiva nella baracca in giardino. Una volta all’interno e individuata la stanza da letto di Jihad, Lev e uno dei commandos con il passamontagna salgono rapidamente le scale. Il tempo è tutto. I colpi di pistola col silenziatore, specie quelli sparati con le mitragliette emettono un sibilo, una specie di gemito soffocato, inconfondibile per un esperto militare come Abu Jihad che forse sente qualcosa. Senza accendere la luce allunga la mano verso la pistola sul comodino nel momento in cui la porta viene abbattuta. Il soldato è più veloce del suo comandante e spara per primo, Lev racconta che sparò dopo una lunga raffica «attento a non ferire la moglie che dormiva a fianco di Abu Jihad», i due figli — dodici e due anni — dormivano nella stanza a fianco. «Ho sparato senza la minima esitazione — ha raccontato Lev al giornale — era votato a morire. Era coinvolto in crimini orribili contro civili israeliani».
Quella notte un Boeing 707 equipaggiato per la guerra elettronica seguì l’operazione dal cielo volando in un corridoio aereo (Blue 21) che passa tra la Sicilia e la Tunisia. Il suo compito era quello di azionare le apparecchiature di disturbo elettronico per isolare i telefoni di tutta la zona interessata dall’operazione. Ma il Boeing senza insegne era anche il centro di comando dell’intera azione. A bordo c’era il generale Ehud Barak — allora vicecapo di Stato maggiore dell’Esercito e oggi ministro della Difesa — che già  anni prima nel 1973 aveva guidato i commando israeliani (lui si era travestito da donna) che a Beirut, in maniera quasi identica a Abu Jihad, uccise tre alti dirigenti dell’Olp e decine di palestinesi. L’aereo comparve al largo della Tunisia alle 00.30 del 15 aprile e scomparve alle 01.26, quando ormai i ventisei commando sbarcati dai gommoni erano al sicuro a bordo unità  navale israeliana. Il sommergibile fu inghiottito rapidamente dalle acque nere del Mediterraneo senza luna. Il messaggio in codice venne trasmesso a Gerusalemme ai due comandanti che avevano ordinato l’operazione: il primo ministro Yitzhak Shamir, il ministro della Difesa Yitzhak Rabin. La risposta fu una sola parola: “Mazel tov” (complimenti).

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