Clima, i grandi inquinatori non firmano l’accordo

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DOHA — La partita, forse una delle più cruciali, della Conferenza delle Parti, il vertice delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, convocato per il diciottesimo anno, questa volta a Doha, in Qatar, si è chiusa ieri sera ai tempi supplementari con un sostanziale pareggio tra velocisti e maratoneti della corsa ai ripari contro il riscaldamento globale. Insoddisfatto il ministro italiano dell’Ambiente Corrado Clini: «Invece di fare un passo avanti, la comunità  internazionale ha fatto un passo indietro. Non si è riusciti a trovare un accordo in grado di dare concretezza e continuità  di impegni presi a Kyoto». «Ma sarebbe potuta andare peggio», ammettono molti ambientalisti, pur preoccupati dall’elefantiasi del processo internazionale in confronto all’urgenza delle contromisure invocate dagli scienziati.
Il Protocollo di Kyoto scade a fine dicembre, ma raddoppia per altri 8 anni, come volevano l’Unione Europea, l’Australia, la Norvegia, la Svizzera, che (a differenza del resto del mondo e di partner massicci, come gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone) ne riconoscono i vincoli legali e, quindi, sono potenzialmente sanzionabili in caso di inosservanza. Un impegno che vale però soltanto per la loro quota di emissioni: meno del 15% del totale rilasciato annualmente nell’atmosfera.
Il «Kyoto 2», come è definito in «gergo climatico», farà  da ponte fino all’accordo globale che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, secondo il progetto approvato l’anno scorso a Durban, per impegnare legalmente l’intera comunità  internazionale a ridurre le emissioni di gas serra entro limiti precisi. Secondo Greenpeace il secondo periodo di Kyoto lascia aperte ancora troppe scappatoie ai governi firmatari e, ovviamente, ai Paesi che lo hanno votato senza sacrificargli la loro sovranità  nazionale.
Secondo il responsabile delle politiche europee di Legambiente, Mauro Albrizio, i tredici giorni (uno in più del dovuto) di trattative sono serviti perlomeno a salvare l’unico strumento internazionale vincolante a disposizione e a quantificare, in un documento annesso, la progressione dei tagli pattuiti alle emissioni di carbonio: «Non si è stabilito invece come colmare il gap di 8-13 miliardi di tonnellate di carbonio (per intenderci, il doppio o il triplo di quanto emette in un anno l’intera Europa) che corre tra quanto hanno promesso di tagliare i delegati e quanto invece occorrerebbe tagliare, a giudizio degli scienziati, per mantenere il riscaldamento globale entro il limite di sicurezza di 2 gradi centigradi per il 2100. Si è deciso di trovare una soluzione entro il 2014, ma sarebbe stato molto meglio farlo a Doha».
L’impresa era difficile, a fronte della resistenza di alcuni negoziatori giunti con il mandato, dai rispettivi governi, di non accettare — quanto a energia fossile — limitazioni superiori a quelle dei Paesi concorrenti, sul piano industriale e commerciale. E di fronte al blocco russo-ucraino-polacco, che ha tentato fino all’ultimo di far valere vecchi crediti sulle emissioni: persa la battaglia, il delegato di Mosca ha percosso il suo banco con la bandierina, in un’involontaria imitazione di Kruscev con la sua scarpa, 50 anni fa all’Onu.
Infine la Cop18 non ha chiarito quali e quante risorse economiche i Paesi sviluppati siano disposti a garantire ai Paesi più poveri nei prossimi otto anni, perché solo alla Cop19 di Varsavia verrà  formalizzato il programma di aiuti tra il 2013 e il 2020, quando si dovranno trovare 100 miliardi di dollari l’anno, sotto forma non di contanti ma di tecnologia verde, know-how e altre risorse per mitigare le conseguenze delle catastrofi climatiche sempre più intense e sempre più frequenti, E per adattare infrastrutture e stili di vita all’inevitabile inasprimento delle condizioni atmosferiche.
A Doha i primi segnali sono venuti dall’Europa: l’Inghilterra ha promesso 2 miliardi e 200 mila euro per due anni, la Francia 2 miliardi per un anno e la Germania 1,8 per un anno. Con l’aggiunta di qualche finanziamento da Danimarca, Olanda e Norvegia, il totale attualmente a disposizione per l’anno prossimo arriva a circa 8 miliardi di dollari.
Elisabetta Rosaspina


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