Egitto, assalto al Palazzo Il leader Morsi scappa

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Mohammed Morsi è scappato dal palazzo presidenziale di Abdeen nel centro del Cairo, attaccato da masse di manifestanti furiosi per la «svolta islamico-dittatoriale» del raìs egiziano. O meglio, dicono altre fonti, ha solo lasciato l’ufficio che fu di Mubarak per andarsene a casa, come ogni sera. Ma ieri non è stata una sera come tutte: il presidente ha dovuto uscire da una porta sul retro protetto dalle sue guardie, qualche sasso è pure arrivato alle auto della scorta. E migliaia, intorno al palazzo, intonavano ancora tra i lacrimogeni lo slogan della rivoluzione (ash shaab yurìd isqà t an nizà m, il popolo vuole la caduta del regime). Poco prima avevano marciato su Abdeen, superando barriere di filo spinato e di poliziotti, decisi a dare al «nizà m», al regime, «l’ultimo avvertimento».
La (relativa) luna di miele di Morsi con l’Egitto della rivoluzione che tanto odia il passato da averlo votato in giugno, o almeno tollerato da allora, è finita: a darle l’ultimo colpo sono stati il decreto con cui il 22 novembre il raìs assumeva di fatto pieni poteri, pro tempore e in parte motivati dalla difficile transizione ancora incompleta, ma pur sempre tali. E venerdì è arrivata a sorpresa la bozza di Costituzione approvata in una maratona notturna da una commissione super contestata e abbandonata dai membri laici e cristiani. Una fretta dovuta soprattutto alla minaccia di scioglimento della costituente da parte dell’Alta Corte (che già  aveva mandato a casa il Parlamento), il cui verdetto era atteso per domenica ma è stato rimandato anche perché il tribunale era assediato da islamici minacciosi. Una fretta che ha partorito una Carta piena di lacune o esplicite norme che aprono spazi a una maggior islamizzazione del Paese. Il 15 dicembre gli egiziani dovranno esprimersi su quella bozza che, è probabile, sarà  approvata dalla grande massa. Quello che l’élite intellettuale, rivoluzionaria o semplicemente laica non approva è il «tradimento» di Morsi (qualcuno dice «conferma»): le promesse di apertura e di rispetto di tutte le componenti della rivoluzione e del Paese negli ultimi giorni sono apparse vane.
Ieri undici quotidiani hanno fatto sciopero contro la minaccia che grava sulla libertà  di stampa, oggi tre tv private hanno annunciato il blackout. Intanto Tahrir resta piena di gente, senza barba e con pochi veli, e i leader dell’opposizione — Mohammed El Baradei, Hamdeen Sabahi, Amr Moussa più i capi dei giovani e di molti partiti — hanno finalmente trovato l’unione che se ci fosse stata in giugno avrebbe evitato all’Egitto un raìs islamico. Per ora discutono se boicottare il referendum del 15 dicembre o votare «no». Più in prospettiva come uscire dalla più grave crisi politica da mesi, impresa non facile visto che un conto è protestare, altro è trovare un programma comune che convinca la gente. Ma già  lo scoglio del referendum non sarà  facile da superare: ieri molti giudici hanno annunciato che saranno ai seggi per garantire la legalità , un brutto colpo per gli oppositori che speravano in un fronte compatto con la magistratura per delegittimare quel voto.
Cecilia Zecchinelli


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