Fiscal cliff, il pugno di Obama “Tasse ai ricchi o vota il Congresso”

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NEW YORK — In un clima di inconfessato pessimismo (e di ottimismo di facciata), Barack Obama ha convocato ieri pomeriggio nello studio ovale i leader del Congresso, ai quali ha sottoposto un mini-piano per evitare in extremis il fiscal cliff, cioè il “precipizio” di tagli automatici alla spesa pubblica e di incrementi fiscali per complessivi 600 miliardi di dollari, che scatteranno all’inizio del 2013 e che rischiano di riportare l’economia degli Stati Uniti nella recessione.
«La riunione è stata costruttiva ha riferito il presidente, in un incontro- stampa alla Casa Bianca – ma la situazione richiede uno sforzo immediato e sono convinto che possiamo riuscirci». Meno ambizioso in termini di riduzione del debito rispetto ai negoziati degli ultimi mesi, il pacchetto della Casa Bianca prevede di estendere i sussidi di disoccupazione, di bloccare i tagli ad alcune spese militari e sanitarie, e di prolungare gli sgravi fiscali per i redditi fino a 250mila dollari, lasciando invece che le aliquote federali sul 2 per cento dei contribuenti americani più ricchi tornino al 39,6 per cento, rispetto all’attuale 35.
In mancanza di un accordo bipartisan, Obama chiede che il Congresso sia chiamato a votare sì o no sulle sue proposte. Lui, il presidente, è convinto che possano essere approvate. E pur di convincere i repubblicani a non boicottare il mini-piano, sarebbe anche pronto, secondo indiscrezioni, a congelare le tasse di successione e limitare gli aumenti fiscali ai soli redditi superiori ai 400mila dollari all’anno, invece che 250mila. Ma anche quest’ultima concessione non convince gli irriducibili del
tea party, che finora si sono opposti in modo frontale a qualsiasi ritocco, persino sui redditi al di sopra del milione di dollari. E proprio sulle tasse si giocano le ultime carte di questa pericolosa partita del fiscal cliff, il cui insuccesso potrebbe portare a una tempesta su Wall Street, a un abbassamento del rating americano e persino a un
default, dal momento che gli Stati Uniti hanno ormai raggiunto il tetto di indebitamento stabilito per legge.
I democratici, forti del successo alle presidenziali di novembre, che a loro avviso hanno sancito il consenso per la politica più egualitaria di Obama, non intendono mollare sul far pagare più tasse ai ricchi. Ma i repubblicani hanno ancora il controllo della Camera dei rappresentanti.
E mentre il dibattito sul fiscal cliff evidenzia la grande frattura politica e ideologica tra i due schieramenti, le speranze di un accordo dell’ultimo minuto si concentrano sul ruolo del capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell, invitato ieri alla Casa Bianca assieme al suo collega alla Camera John Boehner, e ai due democratici Nancy Pelosi e Harry Reid.
Più moderato e più pragmatico di Boehner, McConnell potrebbe rinunciare a ogni forma di ostruzionismo per far passare con i voti dei democratici la proposta Obama al Senato, nel tentativo di poter poi forzare la mano ai deputati repubblicani. Ma i tempi stringono. McConnell si mostra «ottimista e speranzoso», pur ricordando che la destra non è pronta a «firmare un assegno in bianco». Il suo interlocutore, il senatore democratico Reid, avverte però che ormai manca poco all’ora X del “precipizio”.
Anche nei mercati finanziari cresce il nervosismo: ieri è stata la quinta seduta consecutiva di perdite a Wall Street. Il nuovo Congresso convocato per il 3 gennaio (con una maggiore presenza di parlamentari democratici), potrebbe avere maggiore facilità  nell’approvare l’accordo. Anche perché a quel punto – visto che saranno già  scattate le misure automatiche del fiscal cliff non si tratterà  più di votare a favore di un aumento delle aliquote per i super-ricchi, ma di ridurle per la grande maggioranza dei contribuenti


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