Gelo tra Maroni e il Cavaliere: la Lega da sola alle politiche

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MILANO — Primo: Silvio Berlusconi non sarà  candidato premier. Sarà  lui stesso a fare un nuovo passo indietro, e non sarà  in favore di Mario Monti. Secondo. Le armate sparse del Pdl non possono permettersi di perdere la Lombardia: il premio di maggioranza attribuito al Senato dalla maggior regione italiana è l’unica speranza dei berlusconiani di rimanere centrali sulla scena politica. Terzo: nessuno, «nemmeno Roberto Maroni con un appello a reti unificate» potrebbe far accettare ai leghisti Silvio Berlusconi come candidato premier. I tre punti fermi sono stati la sintesi messa a punto ieri mattina dopo una serrata consultazione tra i vertici leghisti. Il risultato finale del brainstorming sarà  esposto oggi pomeriggio da Maroni, al termine del consiglio federale della Lega che sancirà  la corsa solitaria dei nordisti a livello nazionale. L’ex ministro dell’Interno, peraltro, nonostante alcune anticipazioni di stampa, ieri sera non ha affatto incontrato Silvio Berlusconi.
E in Lombardia? Il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli si troverà  davanti un fronte diviso e dunque perdente? Non è detto. La Lega resta convinta che la partita dentro il Pdl non sia chiusa, che Berlusconi non si ripresenterà , che Monti non si farà  agganciare dal Pdl. Il che, tuttavia, apre il confronto dentro al movimento. Da una parte, la Lega lombarda e Roberto Maroni: sotto alla Madonnina si pensa che il sostegno ad Angelino Alfano sia un prezzo che si può pagare, se il premio è il governo della regione maggiore. Di opinione opposta parecchi dei non lombardi. Che con «Berlusconi e i suoi avatar», a partire da Angelino Alfano, nulla vogliono avere a che fare. «Nei gazebo di questi giorni — racconta un dirigente — ce lo dicono tutti: questa è l’ultima firma che vi diamo, ma vedete di non fare scherzi». Insomma: «Noi pensiamo che Milano non valga questa messa». Questa componente del movimento, semmai, guarda con interesse a un possibile accordo con l’area che fa capo ai «buoni del Pdl», Giorgia Meloni e Guido Crosetto. Nei desiderata leghisti — e forse anche nelle segrete trattative — questi ultimi potrebbero presentarsi sì come Pdl. La sigla, però, significherebbe «Popolo della Lombardia». Ma un alto dirigente di rito lombardista chiude il discorso: «Prima il Nord significa perseguire gli obiettivi veri della Lega nei nostri territori. E dunque conquistare la nostra regione più importante».
Di certo, i giovani turchi nordisti — peraltro tutti maroniani doc — hanno avuto buon gioco a citare le dichiarazioni dello stesso Alfano. Le ha commentate il capogruppo alla Camera, Gianpaolo Dozzo: «Il segretario pdl afferma che se vogliamo allearci con loro non possiamo imporre il candidato premier». Poi, però, è arrivata «la proposta di candidare a leader dei cosiddetti “moderati” il senatore a vita Monti. A parte il fatto che accomunare la Lega ai “moderati” la considero una provocazione, ritengo che dopo la presa di posizione di Alfano sia giunto il momento di prendere la decisione definitiva di andare da soli alle prossime elezioni politiche».
Per la Lega, tuttavia, si profila un’insidia. Secondo il sito piemontese «Lo spiffero», l’ala del Pdl che fa capo a Vito Bonsignore e Roberto Rosso sarebbe pronta a rendere la vita impossibile al governatore Roberto Cota in assenza di un accordo sulla premiership. Mentre già  da alcune settimane si sente ripetere che il segretario del Pd piemontese, Gianfranco Morgando, starebbe scaldando i motori in vista di una sua prossima candidatura a governatore.
Ma nel Carroccio, in ogni caso, prevale l’ottimismo. Molto commentato, ieri, è stato lo scenario proposto dal professor Roberto D’Alimonte sul Sole24Ore. Secondo cui il mancato accordo in Lombardia tra Lega e Pdl darebbe alla coalizione guidata da Bersani un vantaggio competitivo notevole anche a livello nazionale, in virtù del fatto che il premio di maggioranza, al Senato, è su base regionale. Sennonché, spiega un nordista di livello, «per il Pdl questo è un argomento di vita o di morte. Noi, anche se perdessimo, avremo fatto una battaglia identitaria che nel medio periodo sarà  vincente».


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