Helsinki, i falchi diventano soft «L’Italia resta un Paese chiave»

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HELSINKI — Babbo Natale è tornato come ogni anno nella sua casetta di legno, su a Rovaniemi in Lapponia. Il marcantonio barbuto che lo impersona sta già  aprendo le prime lettere con le richieste dei doni. Qualcuna chiederà  anche che la Finlandia abbandoni l’euro? Non ci credono in molti, qui: «C’è in generale un’ondata anti-europeista — ammette Alexander Stubb, ministro per le Politiche europee e il commercio estero — ed è vero che il partito populista dei “Veri finlandesi” è balzato dal 4% al 19% dei voti. Ma quanto a lasciare davvero l’euro… Come la penso io? Non è un segreto: sono decisamente pro euro fin da quando lavoravo a Bruxelles nella Commissione Europea, con i vostri Romano Prodi e Mario Monti».
Si vive un po’ con il fiato sospeso anche qui, nel nido dei «falchi» rigoristi d’Europa: quelli che hanno chiesto ai greci quasi un miliardo di euro a garanzia degli aiuti promessi, che solo in agosto dicevano di prepararsi al crollo della moneta comune, e che sembrano trovare nel Reichstag di Berlino il faro dei loro voli. «La crisi non è certo finita — spiega Sixten Korkman, economista dell’Università  di Aalto — e noi pensiamo che la chiave di tutto sarà  l’Italia, con le sue riforme. Siamo molto felici che sia governata da Mario Monti, e ci preoccupa assai il dopo-Monti. Perché ci piace sì ascoltare la Germania quando teorizza le sue regole uniche sul rigore, ma la disciplina non si può imporre dall’alto. Non a tutti. Non puoi mandare i carri armati per le strade di Roma…».
Pure, Berlino ed Helsinki continuano ad essere nei fatti molto, molto vicine. E per Helsinki, l’antica domanda o tentazione è sempre lì: è giusto che un Paese benestante paghi i debiti dei Paesi cicala? Ma anche: è giusto che un Paese risorto dalla “sua” recessione anche grazie all’euro, contesti quella solidarietà  comunitaria che all’euro è legata?
Le statistiche non aiutano a trovare una risposta, poiché sono zavorrate da qualche contraddizione. La Finlandia è uno degli ultimi Paesi nella Ue a conservare uno splendente rating da «tripla A»; è il terzo Paese meno corrotto al mondo nella classifica di Transparency International; è anche la nazione europea con il miglior sistema scolastico e il maggior numero di laureati (38% della popolazione), e Internet sta nell’85% delle sue case. L’85% delle donne fra i 15 e i 54 anni d’età  lavora fuori casa. La Finlandia ha uno spread sull’1,5%; un deficit all’1,2% del Pil; un debito pubblico al 53% del Pil; una disoccupazione al 7,7% (media dell’eurozona: 11,7%); una tassa sul reddito calata dal 40% al 30% del salario medio. E tutto ciò, dopo quella paurosa recessione del 1991-1994, vinta grazie alla ricerca e all’innovazione tecnologica, all’economia verde, e al sostegno dell’Europa: allora il Pil precipitò dell’8-10%, la disoccupazione salì in 3 anni dal 3 al 17%, la Nokia beffata dagli iPhone perse 10 mila dei suoi 23 mila addetti. Davvero, una nazione scampata alla gola del leone. Ma oggi, ecco qui le contraddizioni. Nella Ue, proprio la Finlandia benestante è uno dei Paesi con il più alto numero di suicidi. Ed è uno di quelli a più rapido invecchiamento: «In futuro potremmo avere 75 cittadini su 100 oltre i 65 anni di età », dice Penna Urrila, capo economista della Confindustria finlandese. E poi, le finanze pubbliche sono «le più stabili in Europa. Nel breve termine, s’intende». Ancora: «Il debito pubblico non è quello italiano o greco, ma è salito di 7 miliardi nel 2012 — dice il ministro Stubb — e nel presente risanato io vedo un pericolo: quello di diventare arroganti». Un timore condiviso da Erkki Liikanen, governatore della Banca di Finlandia e membro del consiglio direttivo della Bce, la Banca centrale europea: «Ogni Paese anche ricco dovrebbe tener presente i due rischi maggiori: l’ignoranza, cioè l’ignorare le lezioni della storia, e l’arroganza».
«Non mi piace il senso di superiorità  di certi che si cullano sulla «tripla A» — concorda Martti Salmi, direttore del segretariato per gli affari europei al ministero delle Finanze — ma quanto all’uscita dall’euro, proprio non ci credo: nel referendum sull’adesione all’Europa nel 1994, il «sì» vinse con il 57% dei voti, ma toccherebbe il 70% se si tenesse oggi una consultazione sull’euro».
E l’onda populista che sale? Liikanen, il governatore della Banca centrale, ha una sua idea in proposito: «Basta ricordarsi quel che diceva l’americano Mencken: “Per ogni domanda complessa c’è una risposta semplice. E sbagliata”».
La Finlandia di oggi trabocca di «domande complesse». Anche con qualche risvolto, per così dire, psicologico: «La nostra scelta per l’Europa l’abbiamo fatta tantissimi anni fa — dice Vesa Vihrià¤là¤, direttore dell’Istituto di ricerca sull’economia finlandese — e poi abbiamo affrontato quest’ultima crisi tutti insieme, con voi…».
Vuol dire forse che, in casi estremi, un creditore ricco e preoccupato può anche arrivare a chiedere il Partenone in garanzia ai greci debitori (se n’è parlato, e in realtà  non è avvenuto). Ma se poi, nella sua casetta di Rovaniemi, Babbo Natale riceve una lettera che invoca la pattumiera per l’euro, magari le dà  appena una scorsa e la butta nella neve, a far da tappetino alle renne.


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IL NEMICO GLOBALE

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WASHINGTON. MA L’AMERICA non si ritirerà  dal mondo, perché se lo facesse non sarebbe più l’America. Lo dice Obama, lo sentono gli americani anche se undici anni di sangue, di vite, di tesori versati in guerre inutili e in dialoghi fra sordi sembrano andare in fumo in poche ore di rabbia e di odio furioso. Il grido di «Morte all’America » e le fiamme contro quei lembi di territorio degli Usa che sono le legazioni si alzano ovunque nel mondo musulmano.

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