Il veto del «guastatore» Formigoni sulle tasse

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Il 14 febbraio 1994, Umberto Bossi e Silvio Berlusconi si stringono la mano al Circolo della Stampa di Milano dopo aver ufficializzato il loro accordo. Sarà  il patto che darà  il via al primo governo Berlusconi, destinato a cadere già  il dicembre successivo. Alle elezioni del 1996, la Lega si presenterà  da sola e raggiungerà  il suo massimo storico di consensi: 10,4% al Senato. MILANO — «Marinare e rosolare. Qui valgono le regole del barbecue». Dove la marinatura è stata «il chiedere al Pdl di sostenere Maroni in Lombardia alle nostre condizioni». E la rosolatura è quella che inizia adesso, «con il tempo che scorre e avvicina, giorno dopo giorno, il Pdl alla debacle: sconfitta in Lombardia e, quel che per Berlusconi è peggio, addio al sogno di essere decisivi al Senato grazie al premio di maggioranza di Lombardia e Veneto».
Chi parla è un dirigente di primo piano del Carroccio che spiega le mosse del suo leader, Roberto Maroni: «La nostra condizione per un’alleanza nazionale era il passo indietro di Silvio Berlusconi dalla sua candidatura a premier. Quando lui ha chiesto di incontrarci, visto che la nostra posizione era chiara, noi ci aspettavamo che potessero arrivare novità  in quel senso».
E, in effetti, qualche sorpresa c’è stata. L’ipotesi di una corsa a premier di Angelino Alfano è stata messa sul tavolo, parallela a quella di un «passo avanti» di Berlusconi, con il sostegno del Carroccio per una sua candidatura al Quirinale. Proposta non troppo circostanziata, in realtà  e, a una prima occhiata, priva di concreto spessore, oltre che di possibilità  di riuscita.
Soprattutto, a non convincere i leghisti sulle reali intenzioni del Cavaliere di rinunciare alla premiership è la sua insistenza sui «voti congelati». Berlusconi in questi giorni continua a mostrare i risultati di un sondaggio che assegna ai centristi montiani soltanto il 5,5% dei consensi. È vero, l’indagine demoscopica è stata condotta prima di Natale, quando il presidente del Consiglio non era ancora sceso in campo. Eppure, il suo predecessore ne è convinto, «i vecchi voti del Popolo delle libertà  sono ancora tutti lì. Adesso sono congelati, perché ancora non c’è chiarezza. Il problema è che soltanto io posso scongelarli».
Vero oppure no, per il Carroccio cambia poco. Perché, agli esatti antipodi di Silvio Berlusconi, i nordisti sono infinitamente più interessati alla Lombardia che non alle politiche. E sulla maggior Regione il ragionamento è netto: «Il Pdl fino a ieri aveva un’alternativa: la corsa con Roberto Maroni o la corsa con Gabriele Albertini». Sennonché, dopo il tormentato addio dell’ex sindaco di Milano a Berlusconi, l’alternativa è cambiata: «Il Pdl può sostenere Maroni, oppure inventarsi un nuovo candidato». Il fatto è, ragiona il deputato leghista, «che questa non è una corsa per la bandiera, e neppure una prova d’orgoglio. Perché la speranza del Cavaliere è una soltanto: quella di poter ancora dire la sua in un Senato dalla maggioranza stentata». Paradossalmente, se la ride l’esponente padano, «l’alleanza tra noi e il Pdl renderebbe di nuovo Mario Monti il salvatore della patria. Ma per Berlusconi vorrebbe dire nuovo potere contrattuale».
Sennonché, a complicare le cose è stata la presenza di Roberto Formigoni nella villa di via Rovani. «Loro — dice il deputato leghista — l’hanno invitato al summit anche per dimostrarci che lui non è più tra i sostenitori di Albertini». E difatti, lo stesso Berlusconi in qualche modo accredita tale versione: «Formigoni mi ha dato la sua parola che se troveremo un accordo con la Lega, noi voteremo lealmente la Lega e Maroni». Eppure, è proprio il governatore uscente a impallinare la richiesta leghista di sostegno al progetto di lasciare sul territorio il 75% del gettito fiscale. «E difatti, appena uscito, Formigoni cantava vittoria» mastica amaro il deputato nordista. Un riferimento all’irridente tweet in rima del governatore: «La Lega si conferma: nulla dà  e tutto pretende. Viva Albertini presidente».
E così, il leghisti attendono gli esiti della «rosolatura»: l’8 gennaio, tre giorni prima della presentazione delle liste, Maroni ha convocato il consiglio federale padano. E quello è davvero l’ultimo appello.


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