La Rivoluzione contesa tra laici e Fratelli musulmani

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NELLE rivoluzioni il compromesso, soluzione principe della politica, tarda ad arrivare. È quel che accade in queste ore in Egitto dove due forze si contendono in aperta tenzone, a muso duro, la «primavera » cominciata nel gennaio dell’anno scorso in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Entrambe rivendicano di fatto, separatamente, il diritto di esercitare il potere, poiché ciascuna si considera appunto l’unica autentica rappresentante della rivoluzione da cui quel potere deriva.
DA UN lato i laici, i liberali, i cristiani, raccolti in un Fronte nazionale di salvezza dai confini incerti, accusano il presidente Mohammed Morsi, espressione di un vago, ampio fronte islamico, di essere un usurpatore; dall’altro i Fratelli musulmani difendono la legittimità  di Morsi e delle prerogative che si attribuisce, in quanto capo dello Stato eletto al suffragio universale.
L’esercito avrebbe gli strumenti per decidere la sorte della rivoluzione contesa. Ma a parte l’inevitabile impegno di alcune unità  d’élite, incaricate della protezione del capo dello Stato, rafforzate per l’occasione da qualche carro armato parcheggiato davanti alla presidenza, nel quartiere di Heliopolis, al fine di tenere a distanza i manifestanti, a parte queste essenziali precauzioni, i militari sono rimasti fuori dalla mischia. Si sono ben guardati dall’intervenire in appoggio di una delle parti a confronto.
In agosto i generali più giovani hanno esautorato i loro colleghi anziani, compromessi col vecchio regime, hanno concluso un’alleanza con i Fratelli musulmani, e quindi hanno appoggiato Mohammed Morsi appena eletto alla presidenza della Repubblica. In cambio hanno conservato, e conserveranno, i privilegi riservati da più di sessant’anni alla società  militare. Ma non hanno venduto del tutto la loro anima. Un’anima tutt’altro che omogenea, poiché nel corpo ufficiali prevale un tradizionale spirito laico, risalente ai primi anni Cinquanta, quando fu proclamata la repubblica; mentre la truppa, in cui sono in maggioranza i coscritti provenienti dalle diseredate periferie urbane, e dalle province ancora rurali, è sotto una forte, altrettanto tradizionale influenza religiosa. Quindi i soldati
sono tendenzialmente per i Fratelli Musulmani, o per i salafiti, più estremisti. Insomma l’esercito, per ora, resta un enigma.
E’ invece evidente che la «primavera araba» data per morta, sommersa dall’ondata islamica, è ancora rovente, e non solo nella sua versione egiziana. La Tunisia, che ha conosciuto la prima rivolta contro i raìs, e che poi è rimasta prigioniera di un prepotente, inquietante risveglio islamico, sarà  influenzata, come altre società  arabe, dagli avvenimenti del Cairo, principale capitale mediorientale. Dove i laici, i liberali, i progressisti, all’origine della insurrezione di piazza Tahrir, dopo essere stati emarginati dalla tardiva ma incontenibile irruzione sulle sponde del Nilo dei Fratelli musulmani, sono adesso riemersi in forza per far valere le loro esigenze democratiche. E contrastare la svolta autoritaria di Mohammed Morsi. Il quale, in attesa di una Costituzione, si è aggiudicato poteri definiti dai laici «uguali o superiori a quelli che aveva Mubarak», il raìs destituito.
Adesso i promotori della «primavera araba» vorrebbero ridarle i colori iniziali. Il loro programma è vasto e di difficile applicazione. E’ tuttavia la prova che la rivoluzione continua. La posta in gioco è la futura Costituzione. Vale a dire la natura politica dell’Egitto di domani. I due fronti, il laico e l’islamico, non usano le stesse armi. I primi, i laici, all’inizio chiedevano libere elezioni, ma si sono accorti molto presto che essendo frantumati in numerosi movimenti sarebbero stati facilmente sopraffatti
nelle urne dai Fratelli musulmani, dotati di un partito ben organizzato (Libertà  e giustizia), e di una rete sociale che abbraccia l’intero Egitto.
Sono stati dunque gli islamici, non per vocazione democratica ma per motivi tattici, ad adottare le elezioni come armi politiche. Ed infatti hanno vinto tutte le consultazioni, quelle parlamentari annullate, come quelle presidenziali che hanno portato Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato.
Morsi è tuttavia un presidente senza Costituzione, poiché quella del vecchio regime è stata annullata, e quella nuova dovrebbe essere sottoposta il 15 dicembre a un referendum. Al quale il fronte laico si oppone; e sul quale i giudici, indignati dai poteri giudiziari che il presidente si è attribuito, non vogliono soprintendere come la legge esigerebbe. Non è dunque sicuro che lo si possa tenere.
Il testo costituzionale preparato dai Fratelli musulmani, nel caso si dovesse votare tra una settimana, non correrebbe comunque troppi rischi, perché sul terreno elettorale i Fratelli musulmani sono imbattibili. I numeri sono per loro. Per questo i laici, i progressisti, i cristiani si oppongono a un voto che renderebbe legittima la svolta islamica del paese attraverso la nuova Costituzione.
Secondo Human Rights Watch il progetto di magna charta presentato da Morsi è difettoso e contraddittorio, ma non catastrofico. È ambiguo. Si presta a varie letture. La nuova Costituzione non disegna uno Stato teocratico, ma lascia aperte molte porte a un’evoluzione conservatrice rigorosa. Le libertà  individuali sono garantite, ma al tempo stesso si affida a un’autorità  religiosa, l’università  islamica di Al Azhar, le decisione di interpretare, senza appello, i principi della sharia (le leggi coraniche) da applicare. Viene così esclusa curiosamente da questo compito qualsiasi altra autorità , giuridica o legislativa. E abbandonata alle variabili tendenze teologiche, agli umori religiosi, la facoltà  di regolare le libertà  dei cittadini. Per il capitolo essenziale delle donne è stata abbandonata una prima versione salafita, che puntava sulla lettura più intransigente del Corano. Ed è stata adottata la generica formula che riconosce «l’uguaglianza tra tutti gli egiziani». Anche se poi si esplicita che la donna «deve trovare un equilibrio tra i suoi doveri familiari e professionali». La libertà  di culto è assicurata alle tre religioni monoteistiche, ma non è estesa a tutte le religioni.
Mohammed Morsi non può agire come i vecchi raìs. Lui è condizionato dai salafiti, ala radicale dell’islamismo e concorrenti dei Fratelli musulmani. Non può disporre liberamente, almeno per ora, dell’esercito che vuole tenersi fuori dalla mischia. Non può usare con spregiudicatezza la polizia e annessi per reprimere le manifestazioni perché è sotto sorveglianza del Fondo Monetario internazionale dal quale aspetta quattro miliardi e mezzo di dollari, che dovrebbero impedire il fallimento economico del paese. E deve tener conto dello sguardo, sia pur non troppo severo degli americani, che danno un miliardo e mezzo all’anno alle forze armate.
Il 22 novembre Mohammed Morsi ha tuttavia compiuto quel che può essere considerato un colpo di Stato. Ha proibito qualsiasi tipo di ricorso contro le sue decisioni e contro la Costituente, assumendosi così tutti i poteri. Compreso quello di scrivere una Costituzione su misura. Si è messo al di sopra delle leggi e ha eliminato via via tutti gli ostacoli alla conquista del potere da parte dei Fratelli musulmani. L’operazione ha colpito anche numerosi uomini del vecchio regime, in particolare nell’amministrazione della giustizia, spingendo verso l’opposizione funzionari epurati perché un tempo al servizio del deposto raìs. Questo non favorisce l’immagine del movimento laico e liberale.


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