La scommessa di Barack Obama

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Il ministro del Tesoro aveva visto giusto e quello che è avvenuto negli ultimi giorni a Washington — niente accordo su tasse e tagli di spesa, con affannosi tentativi di trovare un minicompromesso dell’ultima ora — sta a confermarlo: con tutti i suoi problemi, l’economia Usa oggi è relativamente più solida rispetto a qualche anno fa. Ad allarmare è l’immobilismo della politica e l’ostinato «muro contro muro» che tiene banco al Congresso proprio perché, a torto o a ragione, è evaporato il clima emergenziale, da ultima spiaggia, che incombe sull’America dai tempi del crollo della Lehman, nel 2008.
Col loro oltranzismo ideologico sulla tassazione dei ricchi, i repubblicani sono i principali responsabili dello stallo. Ma il presidente Obama, che in passato sulla proroga degli sgravi fiscali dell’era Bush l’aveva data vinta al fronte conservatore temendo, altrimenti, di danneggiare irreparabilmente un’economia fragilissima, stavolta, scegliendo di andare fino in fondo, sembra convinto di avere maggiori margini di manovra: sul piano politico (ha vinto le elezioni), ma anche su quello economico.
Ieri, nell’ultima intervista prima di Capodanno, Obama ha detto di temere la reazione dei mercati se non si arriverà  a un compromesso in extremis. Ma la verità  è che, comunque si concluda la vicenda del fiscal cliff — l’aumento delle tasse sul ceto medio e i tagli automatici di spesa — gli Stati Uniti hanno perso un’altra occasione favorevolissima, la seconda in 18 mesi, per avviare un’operazione bilanciata di rientro dal debito pubblico.
Il fallimento del grand bargain tra Obama e il capo della maggioranza repubblicana alla Camera, John Boehner, è politicamente grave, ma non tale da mettere alle corde l’economia Usa. Il sorprendente irrigidimento degli ultimi giorni nel rapporto tra Congresso e Casa Bianca si spiega anche così: si pensava che la fase della radicalizzazione della lotta politica sarebbe finita con le elezioni. Dopo il voto era attesa una tregua, prima delle nuove tensioni della campagna per le elezioni di mid-term del 2014. Invece i repubblicani, benché sconfitti alle urne (anzi, forse proprio per questo), hanno deciso di non recedere dalle loro posizioni intransigenti sull’aumento delle tasse nel timore di aprire in questo modo la strada ai democratici che, resi baldanzosi dal successo del 6 novembre, ora vogliono cambiare le norme sull’immigrazione, la sanità , l’energia e il controllo delle armi.
Da una parte e dall’altra i «pontieri» hanno avuto la peggio: i parlamentari conservatori, che dopo la ridefinizione del perimetro dei collegi elettorali sono arrivati quasi tutti al Congresso col voto dei radicali anti Obama, hanno preferito alzare il ponte levatoio. Anche perché la pressione degli oltranzisti dei Tea Party rimane forte, nonostante la loro recente sconfitta. Ma anche la sinistra liberal, rafforzata dal risultato delle urne, ha contribuito all’appesantimento del clima imponendo a Obama di non fare concessioni significative sui tagli di spesa.
Lo stallo politico della più grande democrazia del pianeta è una brutta notizia per tutti, ma non per questo si deve pensare al peggio: come l’Abramo Lincoln del film di Steven Spielberg che rischiò grosso prolungando la guerra di Secessione pur di arrivare al risultato politico dell’abolizione della schiavitù, così oggi Barack Obama scommette sulla tenuta dell’economia e aumenta la pressione sui repubblicani: se non cedono sull’aumento delle tasse per i ricchi, partiranno incrementi generalizzati e verranno bollati dalla maggioranza degli americani come i carnefici del ceto medio. Speriamo che quello preso da Obama sia un rischio calcolato.


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