L’autorappresentanza necessaria

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Certo, c’è il maggioritario. C’è la paura della destra e della dispersione del voto. Ci sono “errori” che non si scontano più (la partecipazione al secondo governo Prodi con tanto di appoggio alle missioni di guerra e alle mozioni D’Alema per il Dal Molin, le decisioni del ministro ai Lavori Pubblici Di Pietro che hanno salvato sia il Tav che la società  del Ponte, ecc.). C’è l’antipolitica che non fa distinzioni. Ci sono le litigiosità  dottrinali e i settarismi insopportabili… Ma tutte queste sono quisquiglie in confronto a ciò che ritengo sia il nocciolo del problema irrisolto della sinistra: l’idea di rappresentanza in cui è ancora immersa e che ancora persegue. I movimenti, le organizzazioni sociali compresi i sindacati, le associazioni… tutto ciò che agisce in presa diretta nei conflitti non sarebbero altro che “corpi intermedi” pre-politici, buoni ad agitare le acque, utili ad esercitare pressioni lobbistiche, ma obbligati a cedere il passo sulla soglia delle elezioni agli unici costituzionalmente titolati alla rappresentanza istituzionale: i partiti. Questo schema – che pure ha funzionato fino ad un certo punto della nostra storia – è completamente saltato ed è sbagliato continuarlo ad usarlo, a dispetto della disaffezione di massa che lo colpisce (a sinistra) e della spettacolarizzazione televisiva che lo ha sostituito (a destra). Quando Viale ed altri chiedono un passo o due indietro alle segreterie generali nazionali dei partiti, in realtà  propongono un grande salto in avanti: lavorare per facilitare la formazione di una autorappresentanza dei movimenti. Quello che Piano Ferraris chiamava «confederazione delle autonomie sociali». Capire, insomma, che nessuno è interessato a dare deleghe a personale politico che non sia parte interna (non espressione) di sé stesso.


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