L’azienda che aiuta le lavoratrici a diventare mamme

by Sergio Segio | 17 Dicembre 2012 8:56

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MANTOVA — La sede è in via Argentina Altobelli, sindacalista. Niente di più appropriato per la cooperativa Sanithad, 350 soci specializzati nei servizi sociosanitari ed educativi. Con una particolarità , anzi due: le donne sono il 97 per cento (336); e il tasso di fecondità  è il più alto d’Italia (nascono 4 figli l’anno ogni cento donne in età  fertile, contro la media nazionale di 1,39).
«Essere persone che condividono le stesse problematiche aiuta. La conciliazione lavoro/famiglia è il nostro pallino, a cominciare dall’orario, flessibile in entrata e in uscita», spiega Monica Ganzerla, presidente da sedici anni. Racconta degli inizi: «Altri tempi. Mi ero presentata subito dopo la laurea in Scienze dell’educazione, era il 1994. Mi presero per dei progetti. Vedevo gli altri piangere se perdevano un appalto. Non capivo». Il consiglio di amministrazione è tutto al femminile. Fosse un ente pubblico, bisognerebbe invocare le quote azzurre. «Nessuno del 3% di soci maschi si è candidato. Comunque il collegio sindacale è misto…».
Che le cose funzionino lo dimostrano i numeri. Nove milioni di fatturato. La Sanithad gestisce otto centri diurni per disabili, una comunità  psichiatrica, offre servizi di assistenza domiciliare e scolastica e ha appena vinto una concessione per una residenza sanitaria nel Comune di San Benedetto Po, che la terrà  impegnata per i prossimi dieci anni.
Marzia Badinelli, vicepresidente con laurea in Psicologia, racconta quando e come è stata messa a punto l’organizzazione interna: «Nel 2007 abbiamo presentato un progetto che mettesse in pratica l’articolo 9 della legge 53 del 2000, sulle politiche per la famiglia. Il primo passaggio è stato di favorire il part time a chi lo richiedesse. In genere le nostre operatrici stanno via un anno e mezzo o anche due per un figlio: entrano in maternità  appena scoprono di essere incinte, come richiede la legge per i lavori a rischio. Dopo il parto sono obbligatori sette mesi a casa. E a questo periodo si aggiunge la facoltativa. Quando le mamme tornano prevediamo un affiancamento, per riacquistare familiarità  con il mestiere».
Federica Maretti, 34 anni, laurea in Scienze della comunicazione, ammette: «Mi rendo conto di essere privilegiata quando sento le mie amiche lamentarsi che non riescono più a vedere i loro figli. Mentre la mia situazione dovrebbe rappresentare la norma!». Lei in ufficio segue il coordinamento dei «voucher domiciliari» (quali infermieri mandare dove), si occupa di rendicontazione, quando serve risponde al telefono. E mette a frutto i suoi studi per gli «eventi». Un mese fa, per esempio, la cooperativa ha festeggiato 30 anni. «In quella occasione ho lavorato parecchie ore in più, che ho tenuto a credito. Poi la settimana scorsa si è ammalato mio figlio e sono potuta arrivare in ufficio ogni mattina a mezzogiorno».
Anche le operatrici sul campo possono modificare il turno, in caso di imprevisto. Iride Genovesi, assistente Asa nella residenza sanitaria di Eremo di Curtatone, ha cominciato 11 anni fa senza qualifica. «L’ho presa dopo. All’inizio è bastata la buona volontà », ricorda. Mentre la collega Ganna Boytsunyak, ucraina che lavora qui dal 2006, non nasconde un certo orgoglio: «Faccio tanto, ma il risultato c’è. Sono riuscita a comprarmi un appartamento bello».
Elvira Serra

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