L’EDUCAZIONE DI KEYNES TRA CLASSICI E FILOSOFIA

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Il buon economista deve possedere “una combinazione di doti rara”: essere insieme “uno storico, un matematico e un filosofo”; capire i simboli e saper usare le parole; nel pensiero toccare l’astratto e il concreto. E soprattutto osservare il particolare alla luce del generale. Questo pensava e di tanto fu capace John Maynard Keynes, un economista assai speciale.
Speciale per qualità  â€˜naturali’, per virtù inscritte nel suo genio, ben coltivato da un’educazione ai classici e alla matematica. A dieci anni pare conoscesse Euclide e leggesse Ovidio e i prosatori latini. A testimonianza di quanto la solida borghesia vittoriana credesse nell’educazione della propria prole — naturalmente, se maschia — Maynard arrivò giovanissimo a Eton. E subito dopo al King’s College di Cambridge, il più adatto a prendersi cura del versatile allievo.
A Eton si interessò allo studio della propria discendenza e disegnò la silhouette dell’albero geneaologico da cui come un frutto maturo lui pendeva. Risalì a un antenato che verso la fine del Seicento aveva scritto una specie di Ragionato Compendio per convincere tutti, ogni genere di persona a dissentire dalla vera religione. Era un brillante retore, l’avo, e aveva una disposizione alla felicità  dell’espressione che Keynes ereditò, diventando oltre che uno storico, un matematico e un filosofo, un elegante scrittore.
Le due brevi memorie che Adelphi ci offre, introdotte da un saggio giustamente ammirato di Giorgio La Malfa, sono due piccole gemme.
Le mie prime convinzioni, che dà  il titolo al libro, ritorna agli anni di studio a Cambridge, anni assolutamente formativi per il nostro eroe, fu letto il 9 settembre 1938; il secondo Melchior: un nemico sconfitto riguarda gli anni del Trattato di Parigi, e fu letto il 2 febbraio 1921. Letti, sì: perché questi due ‘pezzi’ bisogna immaginarseli così — come delle vere e proprie performances oratorie, recitate ad alta voce in mezzo agli amici di Bloomsbury, nel calore di una comunità  che celebra una memoria condivisa. Il Club della Memoria, che cominciò a riunirsi nel marzo del 1920 e proseguì, anche se in modo niente affatto regolare fino al 1946, era questo.
Senza avere la pretesa di assurgere a mémoires, questi ricordi, o reminiscenze che, ripeto, decide di condividere coi Bloomsberries (come qualcuno li chiamerà  ironicamente, quasi fossero delle fragoline in fiore), sono tanto più speciali perché Keynes non scriverà  mai un’autobiografia, anche se praticò il genere biografico con grande gusto. Si vedano i suoi Essays in Biography, dove isolando con straordinaria chiarezza le figure del mondo culturale e scientifico a lui contemporanee, o del recente passato, ricostruì i tratti autentici e profondi della intelligentsia britannica.
La quale tradizione, legata ai nomi di Locke, di Hume, di Bentham, di Darwin e Mill, si distingue per il rigore del pensiero, per l’amore del vero, per la tensione pratica, per una istintiva insofferenza di ogni forma di sentimentalismo, e vacuità  metafisica. E per l’idea, sempre presente e spesso citata nel testo, di liberarsi da “ogni forma di edonismo per immergersi nelle esperienze del presente”. Idea, per altro, molto legata allo spirito di abnegazione e all’impegno civile. Tutti tratti, questi, condivisi dai principali esponenti del gruppo di Bloomsbury, che provengono da famiglie di tradizione Non-conformist e Dissenter — come appunto gli Stephen, i Fry. E cioè, la famiglia di Virginia Woolf, di Roger Fry. Di Keynes stesso. Perché i giovani di Bloomsbury, niente affatto esponenti privilegiati di una razza e di una classe borghese cieca e avida, furono intellettuali impegnati non a conservare, ma a cambiare il mondo che avevano trovato. E seppero trasformare l’agnosticismo dei genitori in impegno civile. E fare della vita una prova di conoscenza. Un esercizio di impegno etico e morale volto a chiarire le ragioni stesse del vivere.
Se ispirandosi al medesimo umanesimo e idealismo e soprattutto modernismo degli artisti di Bloomsbury, il giovane economista a Parigi seppe cogliere nel particolare il generale, e cioè leggere negli occhi del banchiere ebreo di Amburgo Carl Melchior la dignità  della sconfitta, questo fu per la sua coltivata e moderna flessibilità  mentale, che lo rese capace di spostare il punto di vista — come fa Virginia Woolf nei suoi romanzi — e dunque di mettersi nel posto dell’altro, lo sconfitto; e capire la colpa del vincitore, quell’eccesso di hybris, da cui sarebbe deflagrato il nazismo.
Grande lezione di intelligenza che ci viene da chi sa apprendere la verità  nella conoscenza dei comportamenti umani e pensa l’economia anche come una scienza morale. Purtroppo oggi facoltà  assai desueta.


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