Nel covo dei jihadisti “Siamo pronti a morire per liberare la Siria”

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ANTAKYA — Il covo dei jihadisti dista poche centinaia di metri da piazza Ataturk, e si trova proprio alle spalle di una caserma della jendarma, la gendarmeria turca, nel cuore della vecchia Antakya. Consiste in quattro stanze, nella più ampia delle quali contiamo otto uomini, per lo più giovanissimi, che fumano sorseggiando caffè al cardamomo. Appartengono tutti al Fronte al-Nusra, la frangia più estremista dell’opposizione siriana, che considera non abbastanza devoti all’Islam perfino i Fratelli musulmani e che il dipartimento di Stato americano ha recentemente inserito nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Abu Ahmad, 43 anni, damasceno, ex architetto e non credente fino a 6 anni fa, è il decano di questa cellula. Ha la barba corta, ben curata, e occhi piccoli piccoli, quasi porcini. Abu Ahmad parla lentamente, sorridendo di continuo, con lo scopo, si direbbe, di aggiungere proseliti alla sua causa. Dice: «Non sono un terrorista, e scrive il falso chi dice che la nostra unità  militare sia in contatto con Al Qaeda. Tuttavia, se difendere e soccorrere i musulmani e gli innocenti è un atto terroristico, allora sì, chiamateci pure terroristi. Per quanto mi riguarda, provavo simpatia per Bin Laden ».
Il covo di Antakya è destinato ad accogliere i combattenti che arrivano sia da alcune città  della Siria sia da altri Paesi, soprattutto arabi, per arruolarli, indottrinarli alla bell’e meglio e spedirli al fronte di Aleppo. «Stanotte ne è giunto uno dalla Libia e uno dalla Tunisia. Eccoli là , che ancora dormono», prosegue Abu Ahmad, aprendo una porta e indicando due corpi distesi sul pavimento, avvolti in una coperta.
Quando chiediamo all’ex architetto come avviene il reclutamento, l’uomo preferisce glissare. Poi, spiega: «Non tutti i soldati che passano da qui andranno a rafforzare le fila del Fronte al-Nusra, ma combatteranno ovunque c’è bisogno di loro». Alcuni diventeranno anche dei kamikaze, domandiamo? «Preferiamo usare le autobombe, quelle che si fanno esplodere a distanza. I kamikaze li adoperiamo solo in casi eccezionali. Ognuno di essi è comunque destinato a diventare un martire della fede», dice Abu Ahmad, dimostrando lo scarso valore che attribuisce alla vita dei suoi commilitoni, compresa forse la sua, ma soprattutto a quelle altrui, delle vittime dell’esplosivo.
Per capire il fanatismo che anima questi jihadisti basta ascoltarli parlare dei loro alleati nella rivolta anti-Assad, e non solo dei militari ex disertori di tradizione più secolare, ma anche della branca islamica politico-militare dei salafiti e dei Fratelli musulmani. Come spiega il capo della cellula di Antakya, nelle mani loro la Siria diventerebbe un Paese forse peggiore di quello che è stato sotto la dittatura alauita «perché sono certo che non avrebbero il coraggio di vietare il consumo di alcol né l’omosessualità ».
Che cosa accadrà , dunque, se la rivoluzione dovesse trionfare contro il regime? Abu Ahmad giura che non ci saranno vendette contro la minoranza degli alauiti, salvo contro quella fetta coinvolta nei massacri degli ultimi ventidue mesi. I problemi nasceranno però tra gli alleati odierni. «E’ vero, saremo costretti a spartire il potere con le altre fazioni dell’opposizione. Ma vedrà  che saranno loro che non vorranno governare assieme a noi».
Due giorni fa, Abu Abdel Rahman, uno degli emiri del Fronte al-Nusra, lo stesso che ha rivendicato il sanguinoso attentato di tre giorni alla periferia di Damasco, ha annunciato l’imminente nascita di uno Stato islamico nelle aree liberate della Siria: «Molto presto, unendo le forze tra mujaheddin, combattenti di tutti i gruppi e brigate senza eccezione, realizzeremo qualcosa di unico nel suo genere, che non farà  felici gli Usa né i suoi alleati, e neppure il regime alauita siriano. Uno Stato musulmano in cui ogni individuo avrà  garantiti i suoi diritti e doveri senza alcuna discriminazione». Abu Ahmad scuote la testa. Poi riprende: «La Siria rimarrà  una nazione multiconfessionale, ma una volta che saremo al potere, costruiremo una moschea in ogni villaggio e in ogni quartiere delle minoranze di fede diverse dalla nostra, per invitarle ad abbracciare l’Islam».
Come ha spiegato venerdì scorso il leader della Coalizione nazionale siriana, Moaz al Khatib, la comunità  internazionale è in parte responsabile dell’affermazione degli estremisti in Siria. Avendo combattuto da sola ed essendo ormai prossima a far cadere il regime di Bashar al Assad, l’opposizione non spera più in un intervento internazionale. Tuttavia, i ribelli ancora chiedono armi al mondo libero, ma se queste non dovessero arrivare «loro sono pronti a estirpare la dittatura anche con le proprie unghie». Quando riportiamo queste parole ad Abu Ahmad lui sorride di nuovo poi, con agghiacciante naturalezza, aggiunge: «Le bombe sono certamente più efficaci».


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