Profughi, due mesi di speranza

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Permesso umanitario per tutti e una proroga di almeno due mesi, forse tre, per rimanere nei centri di accoglienza. Così per ora si eviterà  il rischio di mandare per strada al freddo i 17 mila profughi dell’emergenza Nord Africa. Sono uomini, donne e bambini fuggiti quasi due anni fa dalla Libia e accolti nel nostro Paese. Con i fondi pubblici prosciugati dalla crisi e dagli sprechi rischiavano di non avere più un tetto. Ma adesso c’è una piccola certezza: l’assistenza proseguirà  oltre il 31 dicembre. La rassicurazione del ministero degli Interni arriverà  a fine settimana ma “l’Espresso” è già  in grado di anticiparla. «Il permesso e il prolungamento dei fondi per l’accoglienza saranno attivati con modalità  che si stanno ancora preparando, ma una cosa è sicura: nessuno sarà  lasciato in mezzo ad una strada» spiegano dal dipartimento dell’immigrazione del ministero dell’Interno.

Dopo oltre 18 mesi passati nel caos, dopo che la Protezione Civile ha speso un miliardo e 300 milioni di euro per nutrire un sistema di albergatori e cooperative spesso senza scrupoli, l’epilogo poteva essere tragico. Perché il Governo ha tenuto in piedi per tutto questo tempo una macchina burocratica e giuridica che ora si rivela, in tutto e per tutto, completamente sprecata.

Ecco la ricostruzione del bizantinismi della (non) accoglienza all’italiana. Tutti i profughi sbarcati in Italia dopo il 6 aprile 2011 sono stati obbligati a chiedere, d’ufficio, l’asilo politico. Un vero pasticcio: infatti molti, in fuga dalla Libia per la guerra, erano in realtà  immigrati lì dal Bangladesh, il Senegal, la Nigeria, ovvero da luoghi che non avrebbero garantito loro lo status di rifugiato.

L’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni l’aveva detto: «Non accetteremo più del 30 per cento delle domande», e così è stato. Centinaia di commissioni territoriali hanno dovuto vagliare più di 20mila richieste di asilo spesso campate per aria, con il solo obiettivo di fabbricare una storia adatta a dimostrare una persecuzione nel Paese d’origine. Le commissioni le hanno rifiutate, con percentuali che spesso superavano l’80 per cento delle domande. E mentre le associazioni si erano già  attivate per permettere ai profughi di fare ricorso, è intervenuto il ministro Anna Maria Cancellieri.

Con colpo di spugna, in una circolare diffusa a prefetture e regioni il 30 ottobre scorso, ha stravolto tutto il sistema messo in piedi da Maroni. Niente commissioni, dinieghi, prefetture intasate e rischio di clandestinità : sarà  garantito a tutti un permesso umanitario per rimanere in Italia ancora un anno. Il che significa la possibilità  di restare legittimamente nel nostro Paese, ma senza ricevere sussidi pubblici.

Un’apertura arrivata all’ultimo momento, che rischiava di lasciare senza un tetto e senza forme di sostegno i rifugiati, obbligati a inventarsi un reddito e una casa in soli due mesi. Finché non è arrivata la proroga, che offre una chance per tentare l’inserimento. Dal primo gennaio i sussidi saranno molto più sobri rispetto allo sperpero degli scorsi anni: si ipotizzano 25 – 30 euro al giorno per ogni adulto, ritenendo la cifra sufficiente per tirare avanti. Anche se il ritardo nella decisione ha creato malumore tra le associazioni. «Se la certezza di un permesso fosse arrivata prima», spiega Bernardino Guarini, responsabile del Centro Astalli per l’immigrazione di Roma «avremmo potuto aiutarli a iniziare un percorso di autonomia. Le autorità  dovevano pronunciarsi sin dall’inizio, non ora, che tutto è stato smantellato».

In pratica, concedendo subito il permesso umanitario si sarebbe evitata la trafila delle richieste di asilo. Non solo i profughi avrebbero preparato meglio il loro futuro nel nostro Paese, ma avremmo anche risparmiato. Perché gli uomini che in Libia lavoravano, magari come operai specializzati, volevano solo quello: un permesso. E ?€“ stando all’esperienza registrata dagli operatori delle associazioni – quando hanno in mano un documento escono dai circuiti dell’accoglienza, perché se la cavano molto meglio da soli.
Invece la macchina dell’accoglienza di Stato ha generato mostri di burocrazia. «E’ una situazione surreale», commenta l’assessore alle politiche sociali del comune di Milano, Pierfrancesco Majorino: «Siamo al 18 dicembre e ancora non si ha la certezza degli strumenti con cui verrà  prorogata l’accoglienza, nonostante sia da maggio che noi e gli altri enti locali chiediamo al governo di intervenire». A Milano lunedì scorso 300 profughi si sono presentati davanti a Palazzo Marino, per protestare contro le incertezze sul loro futuro. «Prorogare di tre mesi l’emergenza non serve se questi ragazzi non vengono aiutati a diventare autonomi», conclude Majorino: «Per questo chiediamo al governo di investire in due cose: borse lavoro e rimpatri assistiti. E’ allucinante l’idea che oggi, anche a chi chiede di tornare a casa, sia così difficile garantire un titolo di viaggio».

Nelle associazioni e tra i volontari che si occupano di migranti il clima è pesante. «La proroga di qualche mese è una parziale riduzione dei danni che si sono creati in quasi due anni di emergenza. Ma in dieci giorni i problemi non si possono certo risolvere» dice senza giri di parole Gianfranco Schiavone, avvocato dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). La proroga ha un unico effetto, sicuramente umanitario: evita che nel massimo rigore dell’inverno quasi 18 mila persone vengano sbattute fuori dai centri di accoglienza per la fine dei fondi. Così si potrà  arrivare alla primavera, superare la fase critica e sperare che poi ci sia la “dispersione” per la Penisola: qualcuno finirà  nei campi del Sud come bracciante, altri nei cantieri a lavorare in nero. Insomma, la classica soluzione all’italiana dopo avere bruciato soldi per due anni. «Già  oggi qualcuno lascia gli alberghi con una “buonuscita” da mille euro e raggiunge i migranti che lavorano nei campi calabresi di Rosarno» conclude Schiavone.

Questa prospettiva vale solo per chi può lavorare. Per le categorie più svantaggiate, madri con bambini piccoli, vittime di tratta o di tortura, ragazzi sconvolti dalla guerra, l’accoglienza sarà  necessaria, e dovrà  durare ancora ben più di due mesi. La gestione delle strutture e dei fondi, con le ultime delibere, è passata dalle mani della Protezione Civile a quelle del ministero degli Interni. Se i posti letto pagati profumatamente (fino a 47 euro al giorno) ad alberghi e residence privati saranno quasi certamente chiusi, l’interrogativo sul futuro riguarda quelle piccole strutture che si sono attivate con l’Emergenza ma potrebbero continuare a funzionare per l’accoglienza “normale”. Certo, si parla di ben altre cifre rispetto alla cornucopia della gestione della protezione civile.

Nei prossimi mesi si prevede di stanziare dai 20 ai 30 euro al giorno per ogni persona, a cui garantire anche corsi di lingua, formazione e assistenza: «Per i rifugiati politici avremmo bisogno di almeno il doppio dei posti letto attualmente disponibili» continua Guarini: «Ma soprattutto si dovrebbe armonizzare l’attuale sistema, diviso in più livelli, dalla rete dei Comuni con lo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, la realtà  che funziona meglio, ndr) alle comunità  nate in questi mesi, che non comunicano fra loro».

Perché non tutto quello che è stato creato è da buttare via. Strutture ad hoc per i minori non accompagnati hanno accolto 4200 ragazzi in quasi due anni. In 900 sono rimasti e si cerca di ritornare alla gestione ordinaria. Cosa significa? «Quest’anno abbiamo già  attivato un programma condiviso con le regioni per i minori» dice Natale Forlani, direttore dell’Immigrazione al ministero del Lavoro «realizzando circa 600 inserimenti socio scolastici, 500 inserimenti lavorativi già  effettuati e altri 800 in programmazione per i minori».

E con la gestione normale anche i costi sono in discesa libera. «Finora si è speso troppo: oltre 100 euro al giorno per ogni adolescente. Noi stiamo lavorando puntando sull’affido e le comunità  che hanno costi dimezzati e maggiori garanzie di successo. Perché l’Italia non può certamente sopportare queste spese per l’accoglienza».

Domande da porsi da qui al 28 febbraio o al massimo entro il 31 marzo, quando i soldi finiranno, probabilmente, per sempre. Anche perché sarebbe difficile continuare a parlare di “emergenza” quando gli sbarchi negli ultimi mesi sono decisamente diminuiti. Intanto, una certezza c’è: i profughi arrivati dalla Libia potranno superare l’inverno al caldo, almeno quest’anno. In attesa di conoscere il loro futuro. Se nei campi delle tante Rosarno d’Italia o in una società  che riesca a integrarli riconoscendo loro diritti e doveri.


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