“Questi è mio figlio, il diletto. Ascoltatelo!”

by Sergio Segio | 26 Dicembre 2012 9:11

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Questa la scrissi il 28 settembre 1994:

“In questa notte di silenzio

sento il desiderio di avvicinarmi all’essenziale.

Ne sono attratto come per le mie montagne.

Però in montagna, dalla cima bellissima di una vetta

il mio desiderio si sposta alla prossima che già  mi attrae.

Invece essere vicino all’essenziale

significa poter salire tutte le montagne del mondo senza andarci.

Significa lavorare tra i poveri dell’Africa o in un ufficio in Italia

(o non lavorare affatto perché inchiodati da una malattia)

ma avendo lo stesso cuore riconciliato.

L’essenziale è ben oltre le cose che faccio.

L’essenziale è essere nella tua santa volontà , mio Dio…

…e grazie Gesù per questa tenerezza della notte.”

Scrissi queste poche righe appena arrivato in terra africana. Leggendole ne sono rimasto sconcertato perché quando tornerò a Padova, forse mi sarà  chiesto proprio di lavorare in un ufficio e queste mie parole mi inchiodano alla loro verità , anche se temo di non esserne all’altezza. Nel diario ho ritrovato anche il racconto del più bell’incontro della mia vita, quello con Thomas. Un incontro brevissimo, una luce che subito si è spenta perché Thomas è morto qualche giorno dopo la mia visita a casa sua. La storia del Saint Martin e poi quelle del Talitha Kum e dell’Arca sono iniziate da quei brevi momenti vissuti assieme nel febbraio del 1997. E’ proprio a Thomas che vorrei scrivere la mia ultima lettera.

Caro Thomas, pace!

Torno da te alla fine di questa mia esperienza in Africa, un lungo viaggio iniziato proprio a casa tua. Di quel giorno, ricordo la tua mamma e la sua smania per le benedizioni: tutto doveva ricevere almeno uno schizzo di acqua santa, perfino gli animali del cortile. Facevo così conoscenza delle galline e delle capre di casa tua, ma non mi era consentito conoscere te.

Entrai io, senza permesso, nel tugurio privo di luce dove trascorrevi i tuoi giorni. Lì ci incontrammo. Alla tua mamma era stato insegnato che le tue disabilità  fisiche e mentali erano il risultato della punizione di un Dio cattivo, per cui tu saresti stato maledetto per sempre, indegno perfino di ricevere una benedizione. Le raccontai di un altro Dio che ti chiama “beato” e non “maledetto”, che ha bisogno dell’amore delle persone più deboli, gli unici che lo capiscono perché pieni della sua stessa Grazia. “Graziati” appunto e non “disgraziati”.

Ricordo le lacrime della tua mamma mentre ti battezzavo nel nome di questo Dio, Padre di tenerezza. I cieli cupi della maledizione si aprivano finalmente alla luce della speranza e al canto di una parola partita dal fiume giordano due mila anni fa: “Questi è mio figlio, il diletto. Ascoltatelo!”

Per Dio tu eri il suo figlio prediletto, ma chi eri per noi? E come ascoltarti?

Tornai a farti visita con i primi volontari per sederci vicino a te e ascoltare il tuo silenzio che è la scuola più alta che esiste al mondo: una scuola che riesce a tirare fuori il meglio dal cuore di ognuno.

E’ a questa scuola che abbiamo imparato a prenderci cura delle tante persone con disabilità , ferite non tanto dal loro handicap quanto dall’isolamento nel quale erano state recluse. Poi, abbiamo imparato anche a prenderci cura di altre disabilità , quelle che non si vedono perché si nascondono nei cuori feriti. Un vero cammino di liberazione. Per tutti.

Vera liberazione è stata anche per Alan. E’ stato abbandonato quando aveva solo sei anni forse a causa delle sue disabilità . La polizia lo ha messo in carcere, in attesa di trovargli un posto migliore, ma se ne sono dimenticati e Alan è rimasto dietro le sbarre per 14 anni, subendo le peggiori angherie. Adesso ne è uscito per venire a vivere con noi e lentamente si sta aprendo ad una vita nuova.

Non è facile vivere con lui, perché ha una personalità  scontrosa e non sa ascoltare. Se poi si tratta di ascoltare le mie prediche, non se ne parla proprio: se gli dico che lui non è solo al mondo perché Gesù è suo fratello, Alan mi manda a quel paese perché vuole me come fratello. Quando predico dall’altare: “Dio ti vuole bene”, lui non mi capisce, ma se mi siedo al suo fianco e gli dico: “Io ti voglio bene”, allora capisce benissimo e vedo che ne è felice.

Ecco Thomas, dopo vent’anni d’Africa non ho altro da dirti: sono felice di vivere con Alan e gli voglio bene. Lui ha preso il tuo posto nella mia vita e ti ringrazia di cuore. Ti ringrazio anch’io: il nostro incontro è stato il più grande sacramento che ho ricevuto.

Venire a casa tua, il più bel pellegrinaggio. Come a Betlemme ne è nato un amore. Una vera grazia!

Quando sono arrivato in Africa ero convinto che vera grazia fosse il povero. Ora so che non è così. Quel tugurio abitato dalla tua solitudine era solo angoscia: grazia è stato il nostro incontrarci. L’abbandono di Alan in quel carcere era solo sofferenza: grazia è stato il nostro vivere insieme. Perfino la grotta di Betlemme era solo miseria: non c’è nessuna grazia nemmeno in un Dio bambino, se non c’è una mamma che lo accoglie tra le sue braccia, se lo mangia di baci e sussurra al suo piccolo cuore parole piene di grazia: “Io ti voglio bene”.

Buon Natale,

fr. Gabriele Pipinato

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