Quando Andreotti da senatore a vita si tuffò in una nuova avventura politica

by Sergio Segio | 12 Dicembre 2012 7:25

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Prese il 2,3%: pochino, per chi si proponeva di rifondare la Dc («Vogliono riaprire le case chiuse; perché quelle sì e la Democrazia cristiana no?»). Ma la campagna elettorale del 2001 di Giulio Andreotti fu indimenticabile. A suo modo è un precedente, evocato non a caso in questi giorni: un senatore a vita che non solo si candidò, ma fondò un partito, Democrazia europea, con l’ex segretario Cisl Sergio D’Antoni e un ex ministro che portava il nome di un fiore desueto e di una moneta fuori corso, Ortensio Zecchino. Era un’altra epoca, però. Berlusconi non aveva ancora i capelli, ma era al culmine della forza, Fini e Casini erano disciplinati al suo fianco, la vittoria della destra — su Rutelli — fu netta, e il tentativo di rifondare il centro in mezzo ai due blocchi (per giunta con i collegi uninominali) si rivelò velleitario. Andreotti però diede spettacolo.
Aprì in un grande albergo della periferia romana, l’Ergife. Proseguì con una convention in un cinema di Cecchi Gori: «Sono quattordici anni, dalla campagna dell’87, che non faccio un comizio. Un po’ mi mancava». Nel frattempo però la politica era molto cambiata, e il senatore a vita non si ritrovava più tra hostess seminude, palloncini bianchi e azzurri (i colori del partito), cori Giulio-Giulio che invano tentava di reprimere a due mani infastidito. Al suo fianco c’erano Pippo Baudo e Katia Ricciarelli, allora sposi: alla cantante fu offerto il posto di capolista in Lombardia, Marche e Umbria, slogan elettorale «il potere è soprano». Andreotti commentò: «La signora Ricciarelli testimonia che noi democristiani siamo sempre stati sensibili agli artisti; solo che non li abbiamo mai costretti a firmare appelli per terroristi e vietcong». C’erano anche l’antico rivale Emilio Colombo (che senatore a vita sarebbe diventato due anni dopo), il famiglio Nino Cristofori, Carlo Scognamiglio e qualche ciellino non ancora rassegnato al Cavaliere. Alla fine vennero quelli che Craxi chiamava con disprezzo «i pecorai della Ciociaria» ed erano in realtà  gente semplice, un tempo il nerbo della base andreottiana. Ma un conto era il Divo Giulio a Palazzo Chigi, anello di congiunzione tra Italia e Vaticano. Un altro era l’ottuagenario a fine carriera, uscito da una lunga trafila di processi. Gran parte dei suoi elettori e dei suoi clienti lo abbandonò; o forse erano già  morti. Lui però, paternalista, continuò a lungo a pagare loro le bollette della luce e del gas.

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