SCUOLA DI CLASSE

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Sono soldi veri gli 8 miliardi e 400 milioni dolorosamente tolti alla scuola. Marco Rossi-Doria, maestro di strada, che nei vicoli di Napoli raccoglieva ragazzini e li aiutava nei compiti e anche a riparare i motorini, bastava che non rubassero o spacciassero, poi è stato in America, in Africa e in Francia, sempre studiando formule di scuola che accoglie tutti, ma che fossero praticabili, è ancora per qualche giorno sottosegretario all’Istruzione. Scorre i dati da una tabella: «Sa cosa vuol dire? Vuol dire che nella spesa corrente destinata dalla Repubblica italiana a università , ricerca e istruzione ci saranno per sempre 8 miliardi e 400 milioni di meno. Il precedente governo ha pensato, in qualche modo strano, che la scuola dovesse finanziare il paese».
Era logico il contrario o no? «
Non sappiamo dove siano finiti, quei soldi»
Forse hanno compensato l’abolizione dell’Ici?
«Potrebbe darsi. So per certo che un paese, il nostro, il quale su ricerca e università  era molto giù nella lista Ocse, ma sulla scuola non tantissimo, è andato ancora più giù».
È una tendenza generalizzata?
«No. Né rispetto alle scelte macroeconomiche degli altri paesi, che invece investono: gli Stati Uniti e la Germania e poi Cina, Corea, India, Brasile. Né rispetto a tutta la letteratura sulle politiche pubbliche, anche le più moderate, che ritengono strategica la ricerca, per evidenti motivi di innovazione produttiva, e anche la scuola che alla ricerca fornisce il serbatoio dei saperi di base. Solo un paese che fa molto sport diffuso prepara tanti campioni per le olimpiadi. Obama ha nominato la scuola cinque volte nel primo discorso dopo le elezioni».
Anche la spending review del governo Monti ha tagliato soldi alla scuola: 183 milioni.
«Sarebbe stato meglio non farlo ».
Monti parla di scuola come Obama?
«Monti nei documenti ufficiali parla di investimenti fondamentali in ricerca e istruzione. Draghi dice che essi sono essenziali. Poi Monti cita Draghi…».
Però Monti ha governato, non doveva solo dichiarare.
«Non abbiamo trovato la soluzione giusta. Ci siamo battuti per non subire la spending review.
Ma 183 milioni non sono 8 miliardi e 400 milioni. Fanno comunque male, perché siamo oltre i minimi tollerabili. Però se riflettiamo sulla lunga distanza, colpisce una cosa».
Che cosa?
«L’Italia poverissima, appena unificata, investiva in ferrovie e istruzione. Si costruivano i tunnel, si modernizzava l’agricoltura. E si progettava la scuola comunale, si estendeva all’intero paese la legge Casati. Giolitti intensificò queste politiche. Durante la Prima guerra mondiale si compravano cannoni e aerei, ma non si tralasciava la scuola. Persino la dittatura fascista…».
Pensa alla riforma Gentile?
«Non solo. Furono progettate le scuole rurali. Le bonifiche prevedevano soldi per l’edilizia scolastica. Dopo la guerra, ancora per decenni, la scuola fu un cardine dell’azione politica: prenda la riforma della media unificata».
Che insegnamento trae da questa ricostruzione?
«Che l’attuale stagione è in contrasto con le politiche di tutto il mondo e anche con la nostra storia. Perché siamo arrivati a questo punto?».
Lei ha lavorato un anno come sottosegretario: che risposta si dà ? Cogliamo i frutti di un pensiero sbrigativo, quello sintetizzato dallo slogan “la cultura non si mangia”? Oppure i tagli lineari sono il prodotto di una deliberata volontà  di tenere ignorante una parte del paese e di lasciare zoppa la democrazia?
«Non amo le risposte secche. Si dice: hanno massacrato la scuola perché c’è la televisione, l’imbonimento diffuso. È evidente che tendenze di questo genere esistono. Ma come escludere sciatteria e pressappochismo? E poi: ha protestato la scuola, però non si sono levate grida da parte di masse di intellettuali, imprenditori, giornalisti. Tutto è stato infilato nella questione politica Berlusconi sì, Berlusconi no, senza maturare una riflessione strategica».
Classi dirigenti di varia natura insensibili a ragionare di scuola?
«Si pensa che la scuola è e sarà  immutabilmente quella che ricordiamo lei ed io. C’è un insegnante che arriva in classe, fa lezione, interroga, mette il voto, dà  i compiti. Tutto finisce lì».
Non è così?
«Nel mondo il menù è più ricco. In Italia una minoranza di persone lo sostiene da una vita. Tullio De Mauro, per esempio. Pochi ragionano sul fatto che molto precocemente, dappertutto e con tutti bisogna consolidare conoscenze di base. E che mentre si deve difendere l’investimento, mentre si ripara l’eredità  del passato, si deve innovare».
Si dice che parte della scuola resista al cambiamento. Inoltre su settori del corpo insegnante grava l’accusa di scarso impegno. Monti voleva imporre ai professori di lavorare più ore a parità  di stipendio…
«Ci siamo opposti e questo provvedimento non è passato. Ma il punto è che una gran parte della scuola è già  cambiata e non viene riconosciuta. È piena l’Italia di insegnanti che hanno portato i computer a scuola, che fanno esperimenti scientifici, teatro, musica, che guidano i ragazzi a visitare il proprio quartiere. Molti di essi sono precari. Poi ci sono i professori che entrano in classe e dicono leggete da pagina tot a pagina tot. I primi vanno verso il mondo, promettono ai ragazzi di farli uscire da noia e disaffezione. I secondi no. Purtroppo la classe dirigente italiana, nel suo complesso, non fa differenza fra i due modi. Sui primi si deve investire in termini culturali, organizzativi e finanziari».
E invece?
«E invece niente. Nel mondo e anche in Italia si discute su come far funzionare i gruppi docenti, come aiutarli nell’autovalutazione, ma con criteri friendly, sulla
base di dati acclarati. Su come sostenere le attività  innovative e anche su come incentivare economicamente gli insegnanti. Ma sono pacchetti che devono viaggiare insieme. I proclami del tipo “diamo i soldi ai più meritevoli” da soli non servono».
Mi fa qualche esempio di buone pratiche?
«In zone a rischio della Puglia sono arrivati soldi per incrementare le cosiddette competenze irrinunciabili dalla prima alla terza media: abbiamo registrato un netto miglioramento nelle prove di valutazione Invalsi. Le scuole in Irpinia dove si sono svolti programmi musicali, allestiti cori e orchestre, dove si è fatta formazione dei docenti, lavoro con i genitori su cosa significa educare, sembrano piovute lì dalla Svezia. E invece siamo nel cuore del Mezzogiorno ».
Ma che cosa è necessario perché questi modelli si diffondano?
«Soldi. E poi dirigenti scolastici che sono animatori di comunità , che sanno intercettare fondi pubblici e anche privati. Politiche di vero dialogo fra istituzioni».
Lei, il ministero, il governo che cosa siete riusciti a fare?
«Abbiamo avuto poco tempo. Io ci ho messo l’anima. Con il ministro Fabrizio Barca abbiamo trovato 100 milioni contro la dispersione scolastica nel Mezzogiorno. Abbiamo fornito le indicazioni per i programmi dalle elementari alle medie inferiori…».
E ora?
«Ora la politica riprenda in mano queste cose. Un po’ dei soldi dati via debbono rientrare. Bisogna riparare e innovare».


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