Se Roma diventa capitale della sanità  ammalata

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IL SIMBOLO sono i grappoli di lenzuola bianche che da mesi coprono i tetti e le facciate dei più grandi ospedali romani. Umberto I, San Filippo Neri, Forlanini, Gemelli, Spallanzani… Migliaia di lenzuola diventate drappi neri di smog e di pioggia, bandiere luttuose di un crac annunciato che sta travolgendo la sanità  del Lazio.
MA SIMBOLO anche di una protesta che dilaga in tutta Italia, dalla Lombardia alla Sicilia, ospedali travolti dai tagli, dai debiti, dai licenziamenti. È però la voragine di Roma a guidare il terremoto della sanità  nazionale, 10 miliardi di debiti alle spalle e un miliardo e 140 milioni di euro di deficit oggi, un pozzo nero che sta divorando reparti di eccellenza e posti di lavoro, ma che affonda le sue radici in una lunga storia di inefficienze e ruberie. I numeri sono quelli di una dismissione, quasi un addio alle armi: duemila letti da tagliare, quattro ospedali da chiudere, almeno 1500 licenziamenti annunciati, medici e tecnici che fanno lo sciopero della fame e, per la prima volta, è anche la potente e ricca sanità  del Vaticano a piegarsi in due, i grandi nosocomi cattolici cresciuti e prosperati con i rimborsi della regione Lazio. Cadono simboli e stemmi di congregazioni religiose: dal Gemelli al Fatebenefratelli travolti dai tagli del piano “lacrime e sangue” del commissario alla Sanità  Enrico Bondi, fino all’Idi, il più importante ospedale dermatologico d’Italia, messo in ginocchio da un buco finanziario di 800 milioni di euro. L’intero vertice laico e religioso dell’Idi è sotto inchiesta e i dipendenti senza stipendio da più di quattro mesi. Soltanto due sere fa sono scesi dal tetto i sei tecnici che digiunavano da giorni per protesta. «Piccoli, grandi eroi», li hanno chiamati i loro compagni di lavoro.
Gli ospedali romani sono a terra, i laboratori vuoti, i pazienti abbandonati sulle barelle perché i reparti scoppiano: ma forse la Capitale, dicono i sindacati, altro non è che quel “laboratorio dello smantellamento della sanità  pubblica”, minacciato, seppure velatamente, dal presidente del Consiglio Monti, paradigma dunque di ciò che potrebbe accadere altrove, in altre regioni. Ma da dove nasce lo sfascio della Sanità  romana? E chi sono i responsabili? E quanto la tragedia di oggi è da imputare alla
spending review che deve portare il numero di posti letto a 3 per mille abitanti e quanto invece a precedenti (spericolate) amministrazioni regionali?
LE ORIGINI DEL DISSESTO
«È il 2006 quando il buco nella sanità  del Lazio lasciato dalla giunta Storace viene per la prima volta alla luce in tutta la sua enormità : 10 miliardi di euro, una cifra spaventosa», racconta Marcello Degni, economista, docente di Contabilità  pubblica alla Sapienza di Roma. Quarantanove ospedali pubblici venduti e poi ri-affittati a caro prezzo dalla Regione, la malefatte di lady Asl, fatture gonfiate, appalti, tangenti. Un fiume di denaro che scompare senza traccia. Un debito tossico che eredita in pieno Piero Marrazzo, succeduto alla Regione alla fine del 2005, che chiede l’intervento dell’allora ministro per l’Economia Tommaso Padoa Schioppa. «Venne deciso un piano di rientro, almeno parziale, attraverso un prestito dello Stato di cinque miliardi di euro, da restituire in 30 anni attraverso rate di 300 milioni ogni dodici mesi. Ed è da qui, per impedire la formazione di nuovo debito che iniziano i tagli alla sanità  del Lazio». Dal 2006 al 2012 scompaiono anche attraverso la chiusura di molti piccoli ospedali, circa 4mila posti letto.
La sanità  laziale subisce un tracollo: al Pronto soccorso del San Camillo, tra i più affollati della Capitale, i malati vengono visitati per terra, come negli ospedali di guerra. La fotografia, scattata a febbraio del 2012, fa il giro del mondo: è l’Italia, sì, è l’Italia, anzi Roma, anni luce lontana dall’Europa. Ma non basta: il disavanzo delle spese sanitarie della Regione Lazio resta alto, altissimo. Un miliardo e 140 milioni nel 2011. E i tagli spesso avvengono senza criterio, come denuncia Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sulla sanità  del Senato. Che definisce il Lazio un esempio di “sperpero nazionale”.
UN ESERCITO DI PRIMARI
Oltre alla “finanza facile” dell’era Storace, che cosa è successo negli ultimi 15 anni nella città  eterna, all’ombra anche e a volte con la “partecipazione” del Vaticano? Spiega Ignazio Marino: «La soluzione non possono essere tagli selvaggi, dopo che per decenni in questa regione si sono moltiplicate cattedre, posti, reparti. Nel Lazio ci sono 1.600 Unità  operative, a capo di ognuna delle quali c’è un primario. Quante di queste sono davvero necessarie?». E quante create per offrire un posto di prestigio a qualcuno?
Come non ricordare, allora, soltanto uno degli scandali più recenti, cioè quella Unità  operativa complessa di “Tecnologie cellulari- molecolari applicati alle malattie cardiovascolari” creata ad hoc al policlinico Umberto I di Roma per Giacomo Frati, figlio del rettore della Sapienza Luigi Frati? Ma i casi citati da Marino sono molti di più. Le 35 strutture di emodinamica (reparti ad alta specializzazione cardiologica) di cui però soltanto sei lavorano giorno e notte, come se, ironizza Marino, «l’infarto arrivasse soltanto nelle ore d’ufficio». E poi i cinque centri per il trapianto di fegato, costi altissimi e 98 interventi nel 2011, contro i ben 137 effettuati a Torino dove di centri per i trapianti ce n’è uno solo. «Il risanamento passa attraverso una gestione più equa delle risorse. Ci sono spese gonfiate e reparti depressi: penso al Pronto soccorso pediatrico del policlinico Umberto I, visita 27 mila bambini l’anno e l’80% del personale è precario. Una follia».
LO SCANDALO DELL’IDI
È forse la prima volta nella storia italiana, e soprattutto in quella capitolina, che le casse degli ospedali vaticani sono vuote. Il cracha travolto anche loro. Lenzuola appese ai balconi del policlinico Agostino Gemelli, polo d’eccellenza della sanità  vaticana, dove è sempre pronto un reparto per accogliere il Papa. L’università  cattolica subirà  un taglio retroattivo di 29 milioni di euro per il 2012, mentre attende ancora 800 milioni di rimborsi. E altri ospedali religiosi, come il Fatebenefratelli, hanno già  iniziato a non erogare più prestazioni in convenzione.
Ma è lo scandalo dell’Idi a turbare (forse) i sonni delle gerarchie ecclesiastiche. Chi ha rubato i soldi dell’Istituto dermopatico dell’Immacolata, all’avanguardia per le malattie della pelle e nella cura del melanoma? Una storia torbida, che ha fatto parlare di un caso “San Raffaele” della Capitale, ha portato sotto inchiesta tutti i vertici dell’istituto di proprietà  dei padri Concezionisti per un buco nelle casse dell’ospedale di 800 milioni di euro. E in particolare frate Franco Decaminada, da anni a capo dell’Idi, accusato di appropriazione indebita, e autore, sembra, di opache speculazioni finanziarie che hanno messo in ginocchio l’istituto, attraverso l’acquisto di immobili, e addirittura di investimenti in Congo. «Fatturavamo 70mila euro al giorno — racconta desolata Stefania Zaia, tecnico di laboratorio — oggi siamo senza stipendi da quattro mesi».
EMERGENZA ITALIA
Se il Lazio è il paradigma negativo di quello che può succedere in una regione amministrata male, nel resto d’Italia la situazione è quasi altrettanto grave. Dai migliaia di esuberi in Lombardia al taglio dei interventi non urgenti in Toscana, dai debiti della Campania alla minaccia di chiusura dell’ospedale Valdese in Piemonte, la sanità  pubblica italiana sembra destinata ad una progressiva e amara dismissione.


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