Yemen. Nel regno di Al Qaeda, dove i bimbi studiano Jihad

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JAAR (Sud Yemen). La via dell’islam è indicata senza incertezze, a lettere tracciate con cura su un cartello di metallo, nella strada principale di Jaar: «Marceremo in dodicimila da Abyan, cantando le lodi di Dio e del Profeta, fino a liberare Gerusalemme». Poco lontano, accantoall’ospedalesegnato dai proiettili, un palazzo porta le cicatrici di combattimenti feroci. Qui garriva la bandiera nera con la scritta bianca della shahada, la professione di fede islamica, esposta dagli uomini di Ansar al Shariah. Benvenuti nell’emirato del sud Yemen, o quanto meno in quello che resta dell’esperimento fondamentalista di un anno, avviato da Al Qaeda mentre lo stato yemenita era attraversato dalla rivolta della “primavera”.
Il governatorato di Abyan è a meno di un’ora dal porto di Aden, quello dove nel 2000 una barchetta di Al Qaeda carica di esplosivo danneggiava gravemente l’incrociatore americano Cole e uccideva 17 militari statunitensi. Sui checkpoint della strada costiera, i militari dell’esercito yemenita sfidano le folate di vento cariche di sabbia e controllano con cura documenti e lasciapassare. Un posto di blocco su due è affidato agli uomini dei comitati popolari, che ad Abyan affiancano le forze governative. Quarantenni con la pelle bruciata dal sole si riparano il viso con la kefiah. Alcuni hanno la guancia gonfia di qat, le foglie magiche che tolgono la fame e la fatica, indispensabili nella vita di ogni yemenita. Anche gli adolescenti con il kalashnikov masticano senza sosta.
Nella sede dell’italiana Intersos le donne di Jaar si sentono protette, possono raccontare la paura. L’organizzazione non governativa le ha aiutate quando sono fuggite da Abyan, assieme ad altri ventimila sfollati, accolti in sistemazioni d’emergenza nelle scuole di Aden, e anche adesso aiuta i più vulnerabili, donne, anziani e bambini esposti a violenza. Nascoste dal burqa nero che scopre solo una strisciolina per gli occhi, le giovani parlano apertamente. «Gli uomini di Ansar al Shariah avevano appeso i manifesti che vietavano alle donne di uscire non accompagnate», racconta Fatma, 28 anni: «Chi non aveva un padre, un marito o un fratello a disposizione, doveva restare chiusa in casa. E non è giusto ». A Jaar i qaedisti avevano stabilito la base operativa. E il primo passo verso l’emirato era ricordare alla popolazione le regole di una visione radicale dell’islam. Scrivevano sui muri, passavano in auto con gli altoparlanti. «Pretendevano che i negozianti chiudessero bottega all’ora della preghiera. Poi arrestavano e trattenevano per un giorno chi non obbediva », racconta Umsara, 24 anni: «Ma loro si guardavano bene dall’andare a pregare. E poi la preghiera, quando è imposta da altri, che valore può avere?».
Neanche i piani di proselitismo hanno avuto grande successo: le classi di Jihad, in cui il tradizionale “impegno” del credente si leggeva solo in chiave di “guerra santa”, sono rimaste subito vuote. «Nessuno mandava i bambini, avevamo anche paura di possibili abusi», aggiunge Fatma. Poi c’è stato l’esodo verso Aden, e solo ora la gente rientra a Jaar liberata. «Un vantaggio c’era, sotto Ansar al Shariah», ammette Ummariah, diciottenne: «Nessuno rubava nulla. Loro tagliavano la mano ai ladri».
Anche Amnesty International riferisce di mutilazioni pubbliche nella piazza di Jaar. I “partigiani della Sharia” (questo vuol dire il nome dell’ala yemenita di Al Qaeda) prendevano alla lettera la regola dell’islam più arcaico. Per chiarirlo meglio, lo scrivevano agli angoli delle strade: «Non accetteremo altra legge che quella del Profeta».
Pochi chilometri più a sud, la capitale provinciale Zinjibar è ridotta a un cumulo di macerie. È qui che i qaedisti hanno affrontato nello scontro decisivo le truppe spedite dal governo di Sana’a e appoggiate dalle Forze armate Usa. L’intero centro abitato è devastato, e la tensione resta altissima Appena pochi giorni fa le milizie popolari hanno accerchiato la villa di un signorotto locale, Tareq al Fadli, appena rientrato in città , costringendo le autorità  centrali a portarlo via d’urgenza. Al Fadli, ex combattente jihadista al fianco di Osama Bin Laden in Afghanistan, oggi espone la bandiera americana e si candida per una mediazione fra Al Qaeda e l’Occidente, ma nel confuso panorama politicoyemenitaperSana’a e per i capi delle milizie volontarie resta un leader terrorista.
Il paesaggio della città  è desolante: in un angolo un’auto militare bruciata, muri divelti, segni di esplosioni. Il minareto della moschea centrale espone ferite da granata Rpg, persino il piccolo museo è stato danneggiato. Poche ore prima del nostro arrivo la distribuzione di aiuti si è trasformata in una sparatoria, con almeno un morto. Eppure fra le mura diroccate, i bambini di Zinjibar tornano a scuola, a imparare la matematica, le applicazioni tecniche, l’arabo, più che l’odio per l’occidente. I capi di Ansar al Shariah, per lo più stranieri, sono spariti. I militanti, reclutati spesso fra i ragazzi disoccupati senz’arte né parte in cambio di un kalashnikov e un piccolo stipendio, sono rientrati alla vita di tutti i giorni, al qat e alla rassegnazione, con in più la paura di essere denunciati.
Qualcuno ha cambiato bandiera e si è arruolato nei Comitati popolari, alla ricerca forse di una nuova opportunità .
Sana’a ha pagato molto cara la “distrazione” per le proteste contro Ali Abdullah Saleh, divampate all’inizio dell’anno scorso sull’onda della rivoluzione tunisina e rallentate dopo le dimissioni del presidente. In termini strategici il graduale passaggio di potere da Saleh al suo vice Abd Rabbuh Mansur Al-Hadi, cominciato nel giugno 2011, non ha cambiato molto, poiché entrambi sottolineano l’amicizia con gli Usa e proclamano la lotta senza quartiere ad Al Qaeda. Ma mentre studenti e donne bloccavano il centro di Sana’a esibendo cartelli contro il regime, gli uomini di Ansar al Shariah proclamavano l’emirato islamico e conquistavano
villaggio dopo villaggio ad Abyan. Intanto a Saada, nel nord, gli sciiti andavano avanti con i progetti secessionisti, e lo stesso succedeva nei governatorati del sud nostalgici dell’indipendenza.
ASana’aletraccedellaprotesta restano ben visibili: gli accampamenti dei manifestanti occupano ancora la zona dell’università , ma non c’è più la folla. Un cartello scritto in verde e rosso, i colori dell’islam e del sangue, maledice gli Usa e Israele e denuncia che la rivoluzione è stata tradita. È appeso alla tenda degli Houthy, gli sciiti di Saada, sostenuti dall’Iran. Poco più in là , un venditore di orologi espone la foto di Saddam Hussein con la scritta: «Perdona queste nazioni indegne, dove i cani danzano sul corpo dei leoni». Ma il rimpianto per il raìs iracheno, grande amico dello Yemen, è tollerato. Sono sparite invece le t-shirt con Osama Bin Laden: «I servizi di sicurezza», dice un venditore, «non le permetterebbero ». E la ragione è ovvia. Poco lontano, sulla “strada Settanta”, le fotografie appese sul recinto del parco mostrano i 96 militari uccisi il 21 maggio scorso. Li ha assassinati un kamikaze, infilandosi nella parata militare grazie a una divisa. Visi ingenui e spesso imberbi, da vivi, corpi sformati dalle schegge, da morti. Sotto una tenda, ingenuo straziante mausoleo, un proiettore ripete senza sosta il terrificante video della strage, con sangue, urla, arti strappati e sirene lancinanti. È insieme una promessa e un monito per lo Yemen: con i fanatici non si scende a patti.


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