Contro il muro della differenza

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Il 14 aprile del 2002, l’allora Primo Ministro Ariel Sharon annunciò la costruzione di una barriera di separazione in Cisgiordania. Eravamo all’apice della seconda intifada, iniziata con manifestazioni di massa brutalmente represse dall’esercito e culminata in una serie di attacchi suicidi ai danni della popolazione civile all’interno di Israele. La barriera di Sharon, annunciata nel pieno di quell’operazione, non aveva ancora né un tracciato né un budget. Ma il progetto, destinato a divenire forse il più imponente della storia d’Israele, era nato.
L’avvio dei lavori di edificazione segnò anche l’inizio dello scontro sul tracciato del muro. La società  israeliana si divise soprattutto sulla quantità  di terra da sottrarre alla Cisgiordania con la costruzione. I coloni erano divisi tra chi si opponeva in toto al progetto, temendo che le aree che ne sarebbe rimaste fuori sarebbero state cedute ai palestinesi, e chi appoggiava l’idea di una barriera che penetrasse il più possibile in territorio palestinese, rendendo possibili ulteriori annessioni e ostacolando il processo di pace.
A dieci anni di distanza il tracciato ufficiale è, chilometro più chilometro meno, quello autorizzato dal governo di Ehud Olmert nell’aprile 2006. Un percorso che coincide quasi alla perfezione con suoi piani in materia di confini futuri, così come presentati in sede di negoziati con l’Autorità  Palestinese.
Andamento ingannevole
«Il governo israeliano ha optato consapevolmente per un tracciato che contrasta con le esigenze di sicurezza», è l’accusa del colonnello riservista Shaul Arieli, membro del Consiglio per la pace e la sicurezza e co-autore di Wall of Folly, il più importante libro uscito in Israele sul muro. «Ha scelto di mettere a repentaglio la vita dei suoi civili e soldati per raggiungere altri obiettivi, principalmente legati agli insediamenti. L’opinione pubblica è quasi del tutto ignara di questa amara verità , sebbene sancita dalla Corte suprema. Su pressione di esponenti della destra, tra cui l’allora Ministro del tesoro Benjamin Netanyahu, nella barriera sono stati lasciati varchi tuttora usati da kamikaze e lavoratori irregolari per entrare e uscire liberamente».
Sono passati dieci anni e tante cose sono cambiate. Il tracciato del muro è stato deciso, modificato e corretto tanto dai vari governi che si sono succeduti quanto dalla Corte suprema. La sua costruzione è stata avviata, fermata, ripresa e di nuovo sospesa, per ripartire solo in tempi recenti. Nell’insieme il muro si dispiegherà  per 700 km (di cui 525 costruiti all’oggi): un’estensione oltre due volte superiore alla Linea Verde (i confini del ’67), grazie a un andamento tortuoso e ingannevole. Esso corre per l’85% in territorio palestinese, mentre un altro 8,5% cade sul lato israeliano e viene quindi annesso di fatto. Allo stato attuale l’opera è costatata 10 miliardi di shekel (2,6 miliardi di dollari), cui aggiungere un altro miliardo circa di shekel all’anno (260 miliardi di dollari) in manutenzione. Sebbene quasi tutti gli israeliani reputino l’opera completata, il grosso dei lavori è fermo a un paio di anni fa e non se ne intravede la fine.
Se la società  israeliana si è divisa attorno alla questione del tracciato, la resistenza più accanita è arrivata dai palestinesi, sostenuti nel mondo in questa battaglia e motivati tanto dal danno arrecato dal muro alla propria economia e società  quanto dallo svanire di ogni possibilità  di divenire Stato sovrano nei confini precedenti al ’67.
Stando ai piani iniziali, il muro avrebbe comportato l’annessione di circa il 17% della Cisgiordania. Ma anche nell’ultima e più contenuta versione, che vede le annessioni limitate all’8,5%, la sottrazione di territorio palestinese resta significativa e comprende aree cruciali per la sostenibilità  di uno Stato indipendente. Il caso più estremo è quello della Mishor Adumim, la piana di Adumin: se la costruzione di quel tratto sarà  completata la Cisgiordania si ritroverà  spezzata in due, senza continuità  territoriale alcuna. L’area è anche nota come «E1», quella zona dove Israele ha da poco annunciato la costruzione di migliaia di case per gli insediamenti: la “vendetta” per la domanda di riconoscimento presentata dalla Palestina alle Nazioni Unite.
Nella fase successiva al deposito dei primi progetti di edificazione, la Corte suprema respinse i ricorsi che vennero presentati, dando ragione allo Stato nel definire la barriera una misura di sicurezza priva di implicazioni politiche. In un secondo momento la stessa Corte ha poi stabilito che lo Stato aveva mentito nel rispondere nel merito dei ricorsi, ma non ha annullato le precedenti sentenze.
E se per la causa palestinese il muro è stato un duro colpo politico, per i palestinesi di Cisgiordania è stato una catastrofe. Nelle principali città  si vive circondati da mura alte otto metri che in alcuni casi (soprattutto a Gerusalemme e Ramallah) tagliano interi quartieri in due. Nei villaggi attraversati dalla barriera i contadini sono separati dalle proprie terre, il cui accesso è loro negato o pesantemente limitato, con esiti disastrosi per l’agricoltura e l’economia. Ci sono poi i 35mila palestinesi intrappolati dalla parte “sbagliata” del muro, in piccole enclave che Israele si è annessa di fatto. Persone rescisse dalla propria società , ma che non hanno reale accesso a Israele. Sono inoltre gravissimi gli effetti del muro sulle riserve idriche dei villaggi, sugli eco-sistemi locali e sulla vita di quelle decine di migliaia di persone che entrano ogni giorno in Israele per andare a lavorare – per metà  legalmente, l’altra metà  sfruttando i varchi nella barriera o arrampicandosi oltre il muro a rischio della vita.
Tutto questo ha portato all’esplosione di una nuova fase nella storia della lotta palestinese, quella delle manifestazioni popolari contro il muro. Una lotta iniziata spontaneamente. Nel settembre del 2002, nel villaggio di Jayous arrivarono i primi bulldozer israeliani per l’avvio dei lavori nelle terre circostanti. Gli abitanti di Jayous, che vivono di agricoltura, alla vista dei bulldozer si precipitarono d’istinto sui campi per proteggere gli alberi. Bloccarono i lavori, si avvinghiarono agli alberi, vennero malmenati e dispersi, qualcuno fu arrestato, ma il giorno dopo tornarono sui campi.
«Non avevamo un piano: quando la gente vide che stavano sradicando gli alberi, corse a proteggerli», racconta il contadino Sharif Khaled, uno dei leader delle proteste. «C’erano gli uomini come le donne, gente di ogni famiglia e partito, e decidemmo di restare sulle nostre terre. Fu solo dopo diverse settimane che arrivarono gli israeliani e l’International Solidarity Movement».
Azione diretta e proteste creative
E la protesta dilagò. In altre località  toccate dal muro partirono manifestazioni analoghe. Le forme della protesta variavano da luogo a luogo: alcuni privilegiando l’azione diretta, altri gli slogan e gli scambi verbali diretti con i soldati, altri le forme più creative a suon di musica, performance, maschere e quant’altro.
In quasi tutti i casi israeliani e stranieri sono stati invitati a unirsi alla lotta, che sia stato per ragioni di sicurezza (costringere i soldati a essere meno violenti), per affermare politicamente la resistenza comune e la condivisione dei valori di uguaglianza e di pace, o per le due cose insieme. Ma quale che sia la tecnica adottata l’esercito risponde sempre con la stessa violenza, a gradi d’intensità  variabili: sono in tutto 25 i manifestanti (dieci minori) uccisi durante le manifestazioni contro il muro e 275 le persone uccise nell’insieme delle proteste popolari. Centinaia i feriti gravi, centinaia gli arresti, per non parlare degli alberi bruciati e degli animali da allevamento uccisi dai gas lacrimogeni.
A distanza di dieci anni, viene allora da chiedersi a cosa sia servita la lotta. La prima, più scontata, risposta è che molti dei villaggi insorti, come Jayous, sono riusciti a strappare variazioni al tracciato e riprendersi parte delle terre a seguito di decisioni dirette dell’apparato di sicurezza o di sentenze giudiziarie. Ma se giriamo la domanda a noti attivisti palestinesi, la risposta che riceviamo è di natura squisitamente politica. C’è chi parla della nascita di un’alternativa non armata per la lotta palestinese nel suo insieme, chi insiste sull’importanza delle relazioni nate tra israeliani e palestinesi grazie alla lotta, relazioni che decostruiscono alla base la separazione politica cui il muro è finalizzato. Chi invece sottolinea il sostegno internazionale alla causa palestinese conquistato dalle manifestazioni. «È una lotta contro l’occupazione nel suo complesso – e l’occupazione è tutto fuorché finita», dice Muhammed Khatib, uno dei leader del comitato popolare contro il muro di Bil’in. «Non ti sembra un motivo sufficientemente valido per continuare?».
* The Wall: Ten Years On nasce come serie di 12 articoli pubblicati sulla rivista +972 Magazine (972mag.com). Per questi articoli, Haggai Matar ha ricevuto l’Anna Lindh Mediterranean Journalist Award per il 2012.
Traduzione di Eva Gilmore


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