COSàŒ ABBIAMO SMESSO DI ESSERE CITTADINI

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Qualche settimana fa una mamma, all’uscita da un incontro tra genitori e insegnanti in una scuola media torinese, mi ha detto che era stretta in un dilemma che non la faceva dormire. Come lei, le altre mamme e gli altri papà  della classe. Il bivio era il seguente: o accettare che i propri figli tornassero a casa da scuola nel caso di un’ora buca, oppure contribuire economicamente al pagamento del supplente che quell’ora buca avrebbe coperto. «Hanno cominciato alle elementari chiedendoci la carta igienica – mi ha detto contrariata –, e adesso dobbiamo pagare gli stipendi». Al tempo della carta igienica i bambini erano arrivati una mattina e si erano messi tutti in coda, e poi uno dopo l’altro avevano fatto cadere ciascuno il proprio rotolo dentro un cestone di vimini. Erano persino contenti, mi ha spiegato la mamma con improvvisa tenerezza, di fare un dono alla scuola. All’uscita non parlavano d’altro, e la scuola sembrava diventata di colpo una cosa che gli apparteneva. Di più: si erano messi a escogitare altre maniere di fare dono alla scuola di qualcosa di sé. «Tutto bellissimo », mi ha detto la mamma inghiottendo la tenerezza. «Ma scusa: noi non pagavamo le tasse? Non eravamo dei cittadini?». Di fronte alla domanda di questa donna ho pensato che il cittadino stava poco a poco svanendo per lasciare il posto a una schiera di donatori bambini mandati avanti dai genitori: tutti in coda per buttare in un cestone di vimini un obolo per salvare uno stato in sfacelo.
Così mi sono venuti in mente gli istituti oncologici. Quando si entra in un Istituto oncologico di cosiddetta eccellenza, quel che colpisce di più sono gli enormi assegni appesi alle pareti. Hanno la dimensione dei poster, e se ne stanno lì, incorniciati come stampe di Monet. In bella vista c’è un importo in denaro, da qualche centinaia fino a migliaia di euro, e il nome della persona o dell’ente che ha donato quei soldi. Ci si passa accanto cercando gli ambulatori, i bagni, le macchinette del caffè. Ci passano accanto i malati con i parenti, le diagnosi dentro le cartelline e un macchinario che li aspetta per sguinzagliare contro di loro sostanze che facciano scempio dei cancri. I malati nemmeno li guardano, quegli assegni. Passano e basta. Vedere quei poster, rassicura e riempie di gratitudine. C’è qualcuno con un nome e un cognome ben visibili che per possibilità  economica e disposizione d’animo – ti verrebbe persino da chiamarla bontà  – si sta occupando della tua salute. Potresti cercarlo e dirgli grazie. Grazie perché se non ci fosse lui, il tuo tumore starebbe ancora dentro di te a mangiarti la vita. Però dopo la gratitudine subentra la paura. Il terrore che un giorno la sua disponibilità  economica venga meno per mille ragioni (la crisi economica, un’esigenza personale, un litigio, investimenti, figli, nipoti) e che la sua bontà  sia costretta a battere in ritirata. Insieme, pensi, sparirebbero gli assegni alle pareti, i macchinari, la tua cura. Ti viene il terrore, a vedere quegli assegni, che un giorno potresti smettere di essere un cittadino che ha diritto a una cura. Viene la paura che a mezzanotte la carrozza ritorni zucca: che la comunità , lo stato, si sfarini in uno sciame di persone in cerca di aiuto.
Ecco, fanno pensare alla fine del cittadino le scuole con i bambini in coda per regalare un rotolo di carta igienica, le scuole in cui si chiede ai genitori di contribuire all’acquisto dei materiali per rimettere in sesto edifici fatiscenti, in cui si fa appello ai cosiddetti privati perché intervengano con la loro disponibilità  economica, con il loro senso degli affari. Fanno pensare alla fine del cittadino i tanti ospedali italiani a rischio chiusura, come l’Ospedale Valdese di Torino, su cui soffia il vento gelido di quella che chiamano riorganizzazione. Il reparto di senologia potrebbe chiudere, a dispetto dei risultati del reparto e della mobilitazione di dottori e pazienti perché la Regione ci ripensi. I pazienti, con le cure a metà , chiedono di sapere che cosa ne sarà  di loro dopo la chiusura, chi – quale dottore, quale ospedale? – si occuperà  di scacciare l’intruso dai loro corpi. La risposta sono braccia spalancate, l’orologio sempre più vicino a mezzanotte, e il pensiero di sciami di persone che un giorno troveranno la porta chiusa di un ospedale e si riverseranno in strada, ciascuna con il proprio tumore a metà , da accudire e distruggere, da consegnare a qualcuno. E di fronte a questo sfacelo, appunto, il dono diventa l’ultimo straccio di stato sociale volontario. Così mi sono venuti in mente quegli insegnanti che fanno lezione in piazza per protesta. Negli ultimi anni ne abbiamo visti tanti, in tutte le città  d’Italia. Le scuole crollavano e loro uscivano fuori insieme ai ragazzi. I passanti si fermano e per un po’ stanno lì a sentire una lezione sul trattato di Varsavia, i dettagli della fotosintesi clorofilliana. Quegli insegnanti stanno in mezzo a una strada, in mezzo a una piazza, a offrire in dono quello che hanno, le conoscenze che hanno maturato nel tempo. Stanno lì a offrire quello che hanno, per disposizione d’animo, e disponibilità  di tempo. Tutti di colpo donatori, come i bambini in coda davanti a un cestone di vimini. Vederli riempie di gratitudine, e poi subito dopo fa paura, come davanti agli assegni degli istituti oncologici. Viene da guardare l’orologio, la mezzanotte che si avvicina in questo Paese, i cittadini che tornano sciami di pazienti, studenti, genitori, a cui non spetta più niente, se non il dono – eventuale – di qualcuno.


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