È LA POLITICA BELLEZZA

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Da occuparsi di politica a provare a occupare la politica il passo è breve. Per qualcuno. Tanto più quando i politici sono così screditati da rendere accattivante e spendibile anche una figura che ultimamente non gode certo di popolarità . Il (la) giornalista. Tra i vip che giorno dopo giorno riempiono le liste più o meno civiche dei partiti, a fare notizia sono proprio quelli che fino all’altro giorno le notizie le davano. Corradino Mineo, da direttore di Rainews a capolista del Pd in Sicilia. Massimo Mucchetti, editorialista del Corriere della Sera candidato per i democratici in Lombardia. Mario Sechi, direttore de il Tempo schierato con Monti. Ida Dominijanni, dopo 30 anni a il manifesto, nel listino di Sel. Rosaria Capacchione, giornalista minacciata di morte dalla camorra, invece sta con Bersani. Roberto Natale, presidente della Fnsi con Sel e Oscar Giannino che fa da sé con il suo movimento «Fare».
Nonostante tutto, il fascino della politica vissuta in prima persona attira ancora chi meglio la conosce e che proprio per questo potrebbe esserne un po’ schifato, e forse dovrebbe sentire anche il dovere di mantenersi a distanza. Il fenomeno non è nuovo e ha precedenti autorevolissimi (o imbarazzanti), basti pensare a Michele Santoro, Lilli Gruber e Furio Colombo, ma anche a Magdi Allam o Piero Marrazzo, solo per restare ai tempi recenti. Storie molto diverse accomunate da un’unica costante: la voglia o la necessità  di saltare dall’altra parte del taccuino con tutti i rischi (pochi), ma anche i vantaggi, che questo comporta.
Scelta nobile o abdicazione dalla propria funzione critica e indipendente? Lo abbiamo chiesto ad alcune firme più candidabili in assoluto. «A me non hanno mai chiesto di candidarmi ma se qualcuno me lo avesse chiesto gli avrei detto no grazie». Piero Ottone, decano del giornalismo italiano e storico direttore del Corriere della Sera dal ’72 al ’77 non ha dubbi. La sua è una sentenza. «Il giornalismo e la politica sono due mestieri diversi, mischiarli crea qualche confusione di troppo. Come nel caso dei magistrati, il giornalista ha la necessità  di essere super partes. E questo vale tanto più per uno come me che continua a credere nell’obiettività ». Più articolato il pensiero di Carlo Freccero, direttore di Rai4. «E’ un argomento delicato. Credo che tutto dipenda dalla biografia delle persone. Sono scelte che in generale non mi entusiasmano, anche se le rispetto. Per comprenderle però bisogna collocarle nel contesto della vita professionale di chi le fa». Ma l’indipendenza dei giornalisti? Freccero è disincantato: «Non prendiamoci in giro, i giornalisti sono una casta, fanno una professione che inevitabilmente si presta a mille conflitti di interessi, anche senza candidarsi». Il passo decisivo quindi, secondo Freccero, sarebbe una vera e propria scelta di vita, tanto più credibile quanto più coerente con la storia di chi lo compie. «Certo – aggiunge – in molti casi evidentemente chi ha fatto questa scelta non aveva la possibilità  di esprimersi più come voleva nel suo lavoro». Ma si tratta sempre di storie particolari: più che il sintomo di una crisi generale dell’informazione, si tratta casomai dell’ennesimo segnale della crisi della politica che per parlare alle persone ha bisogno di usare dei professionisti della comunicazione, dei veri e propri «spin doctor», magari pescando tra quelli più teletrasmessi.
Molti giornalisti si sono guadagnati credibilità  e notorietà  e sono sempre più adulati dai partiti che se li contendono come fossero giocatori famosi. Non tutti però muoiono dalla voglia di scendere in campo. «Certo che mi hanno chiesto di candidarmi – racconta Marco Travaglio – ma per me si tratterebbe di scendere e non di salire in politica. Facciamo un lavoro così bello che davvero non capisco perché molti lo svalutino al livello molto meno nobile del parlamento. Io sono della scuola di Indro Montanelli, che quando Cossiga voleva farlo senatore a vita rispose di no e aggiunse che aveva visto tanti bordelli da ragazzo e del Senato faceva a meno». Certo Travaglio ammette qualche illustre eccezione, qualche amico: a partire da Furio Colombo e Michele Santoro. «Michele non aveva più un lavoro in Rai, anzi lo accusavano di prendere uno stipendio per non fare niente». Ma si tratta di casi rari e che comunque si concludono con un saldo negativo per i giornalisti. «Finisce che ti usano, ti parcheggiano, ti frustrano e poi tu devi accollarti tutte le porcherie che fa il partito che ti ha candidato. Una tristezza». Per il vice direttore de Il Fatto non c’è nessun fascino a trovarsi alla pari dei vari Scilipoti. «Ma anche di Bersani o Casini. Un bravo giornalista sa morte e miracoli e tutte le miserie dei politici, trovarsi invischiato dentro quel mondo senza poterne prendere le distanze è quasi una tortura. A parte per quei giornalisti che finiscono in lista come ringraziamento per i favori fatti ai politici».
Anche a Milena Gabanelli sono state offerte poltrone prestigiose. Le ha rifiutate. «Nella mia Bologna, mi hanno chiesto di candidarmi a sindaco da più parti, in modo trasversale». Per lei i giornalisti sono cittadini come tutti gli altri e hanno tutto il diritto di impegnarsi in politica – «anzi in molti casi hanno acquisito sul campo una competenza maggiore di altri personaggi noti come sportivi o veline» – con una avvertenza però: «Una volta che un giornalista fa questo passo non può più tornare indietro. E’ una scelta difficile perché la politica è un mestiere e chi non lo conosce può restarne vittima. Questo vale per tutti coloro che non sono politici di professioni. Ma per i giornalisti c’è un problema in più: la politica è una strada senza ritorno perché un giornalista per essere autorevole deve essere sempre indipendente».


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