Egitto, l’esercito scende in campo «Garantiremo noi la sicurezza»

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I manifestanti a Port Said dichiarano la città  «indipendente» e sventolano bandiere bianche e verdi urlando «No a Morsi, sì alla libertà ». Ma il porto sul Mediterraneo, allo sbocco del canale di Suez, non è Bengasi. Lo sanno i suoi abitanti, dopo tre giorni di scontri e decine di morti, che ancora scendono in strada sfidando di notte il coprifuoco in vigore da domenica. Lo sanno i generali: non è certo quel proclama che ieri li ha spinti a parlare all’Egitto per la prima volta da quando, giovedì scorso, sono iniziate le «celebrazioni» per i due anni dalla rivoluzione. Costate una sessantina di vittime in tutto il Paese (il numero è incerto), hanno dato il via alla crisi più grave dall’elezione di Morsi in estate. Se le proteste più dure sono state e continuano lungo il Canale, la rabbia è estesa soprattutto nel Delta, con strade e treni bloccati, commissariati assaltati, proteste più o meno spontanee, atti criminali. Al Cairo, ieri, ancora tafferugli, due grandi alberghi attaccati tra i quali il Semiramis a un passo da Tahrir, mentre la vicina ambasciata Usa ha sospeso l’apertura.
«C’è una minaccia concreta che si arrivi al collasso dello Stato», ha dichiarato ieri Abdul Fattah Al Sisi, capo delle Forze armate e ministro della Difesa, «anello» tra i Fratelli musulmani al potere e l’esercito. «La lotta perdurante tra le forze politiche e le loro divergenze nell’affrontare le questioni nazionali può portare al tracollo dello Stato e minaccia le prossime generazioni», ha spiegato Al Sisi sulla pagina Facebook che l’esercito aprì alla caduta di Mubarak, ovvero all’inizio dei 17 mesi in cui la Giunta fu padrona de facto dell’Egitto. Un altro punto ha precisato il generale-ministro: il canale di Suez è «vitale» per il Paese, tanto più con la gravissima crisi economica in corso, «e non permetteremo a nessuno di toccarlo». Il dispiegamento dell’esercito a Port Said, Suez e Ismailiya, ovvero lungo la via d’acqua dal Mar Rosso al Mediterraneo, è stato concordato da Morsi con i capi militari tre giorni fa, insieme allo stato di emergenza nella stessa area. Le nuove leggi speciali, in sostanza le stesse imposte da Mubarak nel 1981 per 30 anni, permettono ai militari di arrestare ogni sospetto, e di giudicarlo.
L’avvertimento di Al Sisi è serio, sostengono i diplomatici e gli analisti al Cairo. Ma non significa che i generali vogliano tornare al potere, al contrario. L’esperienza delle reggenza ha mostrato l’enorme difficoltà  di governare l’Egitto post-rivoluzione, e quanto sia facile invece intaccare tra la gente la reputazione di «solido baluardo e forte pilastro su cui poggia lo Stato», come ancora ieri il ministro della Difesa ha definito le Forze armate. Piuttosto, i militari stanno perdendo la pazienza: con Morsi e la Fratellanza, forse anche con l’opposizione. Ieri Al Sisi non ha attaccato il raìs, con cui è stato siglato un tacito patto mesi fa (mantenimento dell’enorme impero economico per l’esercito in cambio del potere politico), ma è evidente che i generali non tollerano più la pessima gestione dello Stato degli islamici. E il messaggio è stato rivolto anche all’opposizione, finalmente unita nel Consiglio di salvezza nazionale, ma determinata a respingere ogni dialogo con Morsi e i militari fino a quando una serie di richieste non saranno esaudite. Tra queste, nuove elezioni presidenziali da indire dopo le politiche della primavera. Un’ipotesi mai considerata da Morsi, il cui mandato scade nel 2017, ma che potrebbe forse realizzarsi se la crisi non si calmerà . Un indizio interessante sarà  l’importante missione prevista per oggi del raìs in Germania: confermata ieri fino all’ultimo, se dovesse saltare sarebbe un ulteriore, pessimo segnale.


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