I misteri d’Italia sepolti in una cella

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È sepolto vivo dal 15 gennaio 1993, il giorno della sua cattura dopo un quarto di secolo d’indisturbata latitanza. Intorno a quel misteriosissimo arresto è praticamente nata l’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Troppi i sospetti sui reparti speciali dei carabinieri che l’hanno preso in una fredda mattina d’inverno alla periferia di Palermo, il suo covo mai ufficialmente perquisito, la sua incarcerazione come primo probabile patto per fermare le bombe che in quei mesi stavano insanguinando il Paese. Fino ad allora Salvatore Riina – lo “zio Totò” per i suoi, “il Corto” per i nemici – era ricercato e uomo libero. Alte protezioni. I quattro figli – Maria Concetta, Giovanni, Giuseppe Salvatore e Lucia – sono nati nella stessa clinica palermitana, a due passi dal teatro Politeama. Come complici ha avuto poliziotti, giudici e capibastone della politica. I più collaborazionisti di tutti, don Vito Ciancimino e Salvo Lima.
È stato il dittatore di Cosa Nostra. E la sua mafia, per la prima volta, ha dichiarato guerra allo Stato. Fino ai massacri del 1992, fino alle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. «È una persona educatissima Totò Riina, con un’espressione così buona, che uno ci parla e sembra un predicatore, quel viso bello… purtroppo sono i visi che ingannano», raccontava il pentito Gaspare Mutolo mentre spiegava come lo “zio Totò”, con le armi del tradimento e la sua ferocia, era arrivato al vertice della piramide criminale. Oggi, dopo vent’anni di prigionia, formalmente è ancora lui il capo dei capi. Dal giorno del suo arresto non si è più riunita la Cupola, il governo della mafia. Così è rimasto in carica. Sono le loro regole. Detenuto nei bracci speciali, ma sempre alla guida di quel che resta di un esercito scompaginato dalla repressione poliziesca e giudiziaria seguita alle stragi. Per il suo delirio e la sua «politica terroristica», Salvatore Riina passerà  alla storia come il mafioso che ha portato alla rovina Cosa Nostra.
Non si pentirà  mai. E nella tomba trascinerà  tutti i suoi segreti. Come quelli custoditi nel suo covo. Un archivio che è un tesoro. Non si sa dov’è. Qualcuno dice che è finito nelle mani di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei grandi latitanti. Un anonimo racconta che l’avrebbero prelevato i carabinieri, custodito per qualche tempo in una caserma per poi farlo sparire per sempre. Ha gli acciacchi di un ottantenne Salvatore Riina ma una mente lucidissima. In vecchiaia sembra più loquace. Si sente quasi un pensatore. Dal carcere di Opera dispensa ai figli consigli sulla vita, lancia avvisi obliqui ai magistrati che l’ascoltano, nelle sue rarissime apparizioni nelle aule di giustizia ogni tanto si esibisce nel suo ruolo. Quello del capomafia mai vinto.
In queste pagine vi proponiamo una raccolta delle sue parole – confidenze, proclami, avvertimenti minacciosi e ragionamenti raccolti in vent’anni di verbali e intercettazioni ambientali – nel loro testo originale. Con il suo vocabolario da semianalfabeta, il suo siciliano allusivo. È un linguaggio rozzo solo in apparenza. In realtà  nasconde sempre qualcosa, porta sempre un messaggio. È la parlata dello “zio Totò”.


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