Il black monday di Obama

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Se non ci può mai essere una seconda volta di una prima volta, e lo stupore di un presidente di sangue africano ed europeo per gli Stati Uniti è stata già  vissuta quattro anni or sono, la figura fragile e ormai innevata dal tempo nei capelli sulla balconata del Parlamento riporterà  insieme, chi lo ama e chi lo odia, di fronte a un evento ancora più sbalorditivo del primo insediamento. Sarà  la conferma della fiducia da parte di una nazione che ancora ieri trattava «quelli come lui» da bestie da lavoro, pronta a bastonarli o ucciderli se avessero osato ribellarsi. Sancirà  la normalizzazione dell’eccezionalità .
Nei giorni allucinati della mezza estate 2008, mentre i castelletti della finanza crollavano come piste di sabbia sulla spiaggia e gli americani tentavano di prender sonno domandandosi se si sarebbero risvegliati in miseria, il trionfo del quarantaseienne senatore dell’Illinois potè apparire come il prodotto di una congiuntura irripetibile e, per lui, fortunata. Molti altri democratici, prima fra tutti quella senatrice Hillary Clinton che lui aveva eliminato nelle furibonde primarie, avrebbero potuto portare via la Casa Bianca dalle mani di un partito screditato da George W. Bush. Quei repubblicani che erano sprofondati in una guerra dissennata costruita sul falso, caduti nel gorgo della speculazione spacciata come libero mercato e incapaci di produrre un ticket migliore dell’accoppiata fra un vecchio politicante come John McCain e una signora che era la satira di se stessa, Sarah Palin. Barack Hussein vinse, ma contro nessuno. Quattro anni più tardi, in un clima politico ed economico di spossante scirocco del quale lui era ormai responsabile, la vittoria su Mitt Romney è stata la prova che quella scelta precedente non era stato un fuoco fatuo, o il pagamento di una cambiale di rimorsi. La nazione ha voluto di nuovo Obama, per testimoniare che la sua «anomalia» etnica, il suo volto con la pigmentazione del padre kenyano e i tratti caucasici della madre, erano diventati la norma-lità , il volto della nuova America arcobaleno. Un pezzo del sogno di Martin Luther King, nato il 15 gennaio del 1929, e che dunque avrebbe potuto essere presente neppure ottantenne alla cerimonia del 2008, si era realizzato: vedere le persone riconosciute per la qualità  del loro carattere, e non per il colore della pelle. Proprio domani si celebra, come da quarant’anni a questa parte, il Martin Luther King Day, fissato per legge da Reagan ogni terzo lunedì di gennaio, e rispettato da tutti gli Stati infine uniti solo negli ultimi due decenni.
La inauguration formale e solenne, che seguirà  quella privata di oggi alla Casa Bianca, è da sempre, e non soltanto per il primo Re Nero, quanto di più vicino alla
coronation dei sovrani britannici che una repubblica possa osare. Già  in quel giorno di aprile del 1789, quando un esausto generale George Washington arrivò a cavallo dalla propria piantagione in Virginia fino a New York per la prima inauguration tra i fiori primaverili lanciati dalle donne e i canti dei suoi ex miliziani, il senso di un rito quasi religioso era presente. Il generale, massone dichiarato, non usò Bibbie per il giuramento e il Libro non sarebbe stato usato per altri cento anni, fino al 1881, all’insediamento di James Garfield, devoto cristiano. Una scelta che non gli garantì speciale protezione: venne assassinato a rivoltellate in stazione da un politicante fallito appena quattro mesi dopo.
Nonostante il tocco mistico di quelle Bibbie che dal 1881, sfidando la scaramanzia, nessun presidente eletto ha più potuto evitare, l’incoronazione contiene ovvi elementi di nostalgie monarchiche temperate, prima che i sovrani a tempo per volontà  di Dio e della nazione si facciano idee stravaganti, dalla sagoma imponente del Campidoglio, del Parlamento, che incombe alle loro spalle. Nonc’èbisognodiuncamerlengoche gli sussurri all’orecchio «Sancte Pater, sic transit gloria mundi », e gli ricordi che il suo regno potrà  durare al massimo otto anni prima di levarsi, felicemente e definitamente, dai piedi. Quella cupolona candida, e il percorso che lui deve fare passando attraverso il palazzo, servono a rammentargli che, finita la pompa magna, il «Dio mi aiuti», i sorrisi e le congratulazioni, dovrà  fare i conti ogni giorno, e per ogni dollaro di spesa, con i 535 fra senatori e deputati, arroccati e arcigni in quella fortezza. Uomini e donne nella pienezza e nella eguaglianza della volontà  popolare, esattamente quanto lui. Non avrà  bisogno certamente di sentirselo rammentare Obama, reduce da quattro anni di corpo a corpo con il secondo potere, quello parlamentare, e già  nel pieno della nuova zuffa, sospesa soltanto per lo spazio del mattino sacrale. Sa bene che finiti gli omaggi e il bagno di folla nel chilometro e mezzo di Pennsylvania Avenue, prima di raggiunge la Casa in cui resterà  inquilino e non padrone fino al gennaio 2017, comincerà  il duello mortale sul bilancio, le spese, il debito, le tasse. Se non ci saranno nemici lungo la strada, e poche stille di quel fiume d’odio che lo accompagna da quattro anni, e i tremila cecchini appostati sui tetti promettono quanta sicurezza sia umanamente possibile, sa che sarà  il secondo mandato, come sempre, a segnare il suo posto nel museo della democrazia governata. Essendo quello nella storia già  sicuro. Per ingiusto che sembri, di fatto Obama è già  il passato, è qualcosa di avvenuto, soprattutto in una nazione ossessionata dal bisogno di guardare oltre. Il poeta cubano Richard Blanco, gay e ispanico, leggerà  il suo omaggio lirico al posto di un reverendo nero scelto incautamente senza conoscere le sue violente opinioni anti omosex, nella speranza che, essendo giovane, non commetta l’errore del grande poeta Robert Frost scelto da Kennedy per comporre un omaggio al presidente nel 1961. Frost, anziano, con gli occhi deboli e accecati dal sole e un po’ nobilmente rimbambito, si confuse: dedicò il poema a tale Finley, suo collega a Harvard, anziché a Kennedy. Non sbaglierà  certamente Obama a leggere il proprio discorso inaugurale che si spera memorabile e come sempre ben declamato, pur nella mesta certezza di non poter mai raggiungere le formule kennediane, «la torcia» passata a una nuova generazione, il «non chiedete che cosa l’America può fare per voi» eccetera. Ma la maggior parte della retorica presidenziale alla incoronazione è dimenticabile e presto dimenticata, soprattutto nel tempo di Internet che brucerà  anche le frasi più sonore nel falò dei tweet, dei blog e degli sms. Dovrà  piuttosto fare attenzione a non bruciarsi le scarpe e l’orlo dei calzoni contro la stufetta nascosta dietro la balaustra della balconata, per permettere ai presidenti di evitare il cappottino impiegatizio e insieme evitare malanni da infreddatura. Come quella che infettò il presidente William Harrison, complicandosi in polmonite fatale nell’era pre-antibiotici, un mese appena dopo il giuramento. La sua tragica sorte, favorita anche dalle due ore e mezza di discorso che Harrison si intestardì a leggere, fu comunque meno imbarazzante, per la dignità  del sommo ufficio, dello sgangherato effluvio di parole che Andrew Jackson, convinto di poter combattere i postumi di una febbre tifoide annegandoli nel bourbon, ubriaco fradicio balbettò.
Misericordiosamente, anche senza i meno 10 gradi centigradi che dissuasero Ronald Reagan da orazioni prolungate, ormai la prepotenza della televisione e l’impazienza del pubblico limitano i discorsi al tetto dell’ora. Anche il corso trionfale lungo la Avenue che collega il Campidoglio alla Casa Bianca, percorso principalmente dentro «la bestia», come i nervosissimi agenti del servizio segreto chiamano la mostruosa Cadillac superblindata del Potus, President Of The United States e della sua Flotus, la First Lady, sarà  ridotto agli ultimi trecento metri per l’angoscia degli angeli custodi di un presidente che molti americani non rassegnati all’onta di quei «negracci usurpatori» vedrebbero volentieri morto. In decenni e dozzine di cerimonie, il servizio segreto ha affinato le proprie capacità  di controllo e di prevenzione anche verso chi avrebbe intenzioni non violente, ma soltanto dimostrative. Come quella coppia che attese pazientemente un giorno e una notte intera per conquistare la prima fila sotto la balconata per l’insediamento di Bush. E poi rapidamente si spogliò restando nel nudo integrale e srotolando uno striscione, occultato chissà  dove e come essendo proibiti segni e cartelli, per insultare «Bush il Ladro in Capo», accusato di avere rubato la vittoria nel 2000.
Nella lunga sera, trascinandosi di ballo in ballo con i piedi dolenti soprattutto per Michelle, impalata sui tacchi alti dal mattino, gli Obama dopo la parata danzeranno alle feste di supporter, lobbysti, sindacati, volontari che si sono spesi per anni senza riuscire a trovare un posticino pubblico, dei finanziatori, dei vari stati e del partito democratico. Si baceranno più volte. Abbracceranno le ragazze Sasha e Malia. Dovranno sorridere fino al blocco delle mandibole. E poi, attorno alle due di notte, crollare insieme nel letto di quella stessa Casa dove fu trasportato per la camera ardente il corpo di Abramo Lincoln. L’uomo senza il quale i coniugi Obama, in quella villotta bianca, avrebbero potuto al massimo servire il caffè al padrone.


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