Il Pentagono taglia i marines. E arruola gli hacker

by Sergio Segio | 30 Gennaio 2013 8:04

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NEW YORK — Johnny Lee, l’hacker famoso per i suoi attacchi al sistema remoto della playstation Nintendo Wii, è stato assunto dalla Microsoft dove ha sviluppato il sistema Kinect per la «console» dell’Xbox. George Hotz, l’hacker noto come Geohot che fece vedere i sorci verdi alla Sony è stato poi preso da Facebook che ha dato lavoro anche a Chris Putnam, uno che coi suoi virus aveva attaccato proprio la rete creata da Mark Zuckerberg. Da tempo i grandi gruppi americani — le imprese digitali, ma anche banche, società  elettriche e tutte quelle più vulnerabili agli attacchi via web — hanno preso a dotarsi di squadre sempre più grosse di addetti alla cyber security.
La stessa cosa ha cominciato a fare anche il Pentagono, che, mentre taglia di 20 mila unità  il corpo dei Marines in ossequio alle nuove regoli di austerity fiscale, ha deciso addirittura di quintuplicare il suo piccolo esercito di cyber warriors. E che per questo, come avveniva un tempo in Francia coi reclutamenti per la legione straniera, non va troppo per il sottile: assume anche ex criminali informatici, sperando che siano davvero pentiti.
Creato tre anni fa per fronteggiare le minacce crescenti alle reti informatiche Usa e per fronteggiare gli sterminati eserciti di esperti di manipolazione delle reti che in Cina e Russia lavorano per il governo e le forze armate, il «Cyber command» del Pentagono, ha rivelato tre giorni fa il Washington Post, ha deciso di portare i suoi organici dagli attuali 900 ad almeno 4900 addetti.
Esperti di reti capaci di costruire le difese in vista di una prossima guerra che, secondo molti esperti, non sarà  combattuta con armi convenzionali ma con silenziosi attacchi informatici, usando byte al posto di bombe e missili per paralizzare la rete elettrica, bloccare le banche, mettere fuori uso i sistemi di telecomunicazione. Magari anche inquinare l’acqua potabile degli acquedotti, provocare incidenti ferroviari, far precipitare aerei in volo.
Scenari apocalittici di cui gli analisti discutono da molto tempo: proprio di questi tempi, tre anni fa, al Forum economico di Davos, diversi seminari furono dedicati alla minaccia di una guerra cibernetica. La senatrice del Maine Susan Collins ammise che il Congresso non solo non aveva idea di come reagire a una cyber war, ma non sapeva nemmeno indicare l’ente competente per preparare le difese, a parte il Pentagono per gli attacchi a strutture militari. Allora, come raccontò il Corriere, al forum si esibì Pablo Holman, un celebre hacker che, convertitosi alla legalità , è diventato consulente per la sicurezza di varie aziende: inguainato in un inquietante abito di raso nero si trasformò in un Diabolik digitale, dimostrando di poter leggere, ad esempio, il numero della carta di credito di persone sedute di fronte a lui, in platea.
È a personaggi di questo tipo che, ora, ha cominciato a fare ricorso il Pentagono. Un po’ perché gli esperti di sicurezza informatica, che in Cina sono centinaia di migliaia, nelle università  americane vengono formati col contagocce: quelli diplomati con una competenza di alto profilo fino a un paio d’anni fa non erano più di 200 l’anno. Adesso, per trovare o preparare il personale dei suoi battaglioni informatici, il Pentagono, che in questo campo lavora in simbiosi coi servizi segreti, ha creato borse di studio, campi estivi, competizioni, stage e altre forme di apprendistato per reclutare nuovo personale specializzato in sistemi di sicurezza digitale.
Ma non basta: così i militari cercano di convertire e reclutare anche hacker fino a ieri considerati degli avanzi di galera. Tutto è cominciato due anni fa quando l’esercito ha rotto il tabù presentandosi a DefCon: il raduno al quale ogni anno partecipano 10 mila genietti del male, i più abili «craccatori» di reti informatiche.
I militari puntano sul patriottismo di ragazzi che sono sì degli hacker, ma pur sempre a stelle e strisce. Descrivere la minaccia che può venire da un attacco informatico non è, del resto, difficile: in un mondo nel quale, a parte malfattori e aziende pronte a tirare colpi bassi, almeno dieci Stati hanno la capacità  tecnologica di lanciare attacchi micidiali alle strutture informatiche Usa, lo stesso ministro della Difesa Leon Panetta qualche mese ha detto apertamente che l’America rischia una «Pearl Harbor cibernetica».

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