La povertà  è un gratta e vinci

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Aveva una bella attività  in un paesino vicino a Brescia. Arrivato in Italia più di 15 anni fa, dopo un breve periodo di “irregolarità ” a Napoli si era regolarizzato pagando il dovuto per accedere ad una delle cicliche sanatorie per poi trasferirsi al nord, in Lombardia, dove trova subito lavoro in una ditta edile. Ma Assad è un ottimo pizzaiolo. Ha fatto una scuola nel suo paese e così, con l’aiuto di altri due connazionali prende in affitto una pizzeria trattoria in una delle tante zone industriali della provincia lombarda.
Gli affari vanno bene. Assad è uno di quei migranti che piacciono agli italiani. Lavoratori. Gentili e sempre un po’ subalterni. Invisibili fuori dai luoghi di lavoro. Rispettosi verso chi da loro lavoro e opportunità . Assad fa venire la famiglia. Moglie e un piccolo bambino. Fitta una casa, vicino al lavoro, in periferia, ma carina
Ma arriva la crisi. Molte aziende chiudono. Molti iniziano a portarsi il mangiare da casa perché la pizzeria per quanto economica tutti i giorni è comunque troppo costosa. E così nel giro di un anno Assad è costretto a chiudere l’attività . Cerca lavoro ma niente. Dopo qualche mese rimanda la moglie e il figlio in Egitto, ma lui rimane. Come molti migranti non ha il coraggio di tornare da sconfitto, specialmente dopo aver vissuto in pieno il «successo del progetto migratorio».
A Brescia non può più stare e allora ricorda come la Campania è più facile da vivere in precarietà , ma arrivato a Napoli, si rende conto che la crisi è arrivata anche li. Forse non ha chiuso fabbriche ma ha estremizzato vulnerabilità  e povertà . Reso insufficienti le tante piccole economie informali. La crisi ha abbassato la competizione. Provando a lavare i vetri ai semafori per intascare qualche spicciolo si accorge che al semaforo ci sono i turni: i rifugiati, i rom rumeni, qualche maghrebino e, da qualche tempo, soprattutto al mercato, qualche pensionato napoletano che non riesce ad arrivare a fine mese.
Adesso, in alcune zone della città  è conosciuto come “gratta e vinci” perché passa le sue giornate appunto raccogliendo i “gratta e vinci” che la gente butta dopo aver constatato di non essere diventata milionaria o “turista per sempre”. Ma in quella delusione spesso non si accorgono del piccolo premio che invece c’è oppure leggono male. E così, Assad, ogni sera riesce a mettere in tasca tra i 5 e i 10 euro.
È come se in un’umiliante e disastrosa vendetta Assad faccia fronte al suo progetto fallito riuscendo a sopravvivere approfittando della delusione degli altri, che vedono svanire il sogno di smettere di affrontare la fatica di un quotidiano sempre più ansiogeno e incerto.
Quella di Assad è solo una delle tante storie di povertà , che coinvolgono persone italiane e migranti, che la mia cooperativa incontra ogni giorno a Napoli, confrontandosi con storie, bisogni e fragilità  che se sono trasversalmente determinate da situazioni di deprivazione economica, portano con se altre e devastanti dimensioni di disagio e difficoltà .
Sono storie difficili da leggere e con cui è ancora più complesso instaurare relazioni stabili di fiducia e aiuto. Sono persone che difficilmente arrivano ai servizi: a volte perchè semplicemente non li conoscono, oppure perché non hanno né la forza, né le risorse per arrivarci da soli. In altri casi perché non percepiscono fino in fondo le loro difficoltà , o ancora perché troppo orgogliose per chiedere aiuto.
Quella dell’immigrato Assad è un caso estremo – ma certo non isolato riguardante la povertà  tra gli immigrati. Ma casi analoghi si registrano anche tra gli italiani nel Mezzogiorno. Ci troviamo di fronte a un universo con molte sfaccettature che obbliga gli operatori a considerare il fare ricerca come parte integrante della loro professionalità  senza il quale diventa quasi impossibile orientarsi o trovare e porre in essere risposte adeguate. Ed è in tale ambito e a partire da tale convinzione che in questi anni è nata la collaborazione e il confronto tra alcuni operatori, come chi scrive ed Enrica Morlicchio, che da anni insegna e fa ricerca sui temi povertà  alla Facoltà  di Sociologia dell’Università  Federico II di Napoli e che ha pubblicato di recente dal Mulino “Sociologia della povertà “, un libro che ha avuto una certa eco nel dibattito in materia a cominciare da un lungo articolo pubblicato sul Sole 24 ore. La nostra collaborazione ha permesso uno scambio di idee e riflessioni basato un comune approccio e una analoga impostazione sui temi della povertà  e delle azioni necessarie a contrastarle oltre che nel reciproco riconoscimento di competenze e saperi.
Tale collaborazione è potuta instaurarsi anche e forse soprattutto perché Enrica Morlicchio è una di quelle studiose che ha saputo guardare, pur riconoscendone il valore e standone a pieno titolo nella cornice, oltre al mondo dell’accademia e dell’università . In altre parole, è una studiosa che ha osservato con curiosità  e ascoltato con attenzione il contesto e le persone che prova a studiare. Confrontandosi di volta in volta con gli operatori, ma anche con le persone incontrate in strada o in treno, sapendo cogliere indicazioni e suggestioni utili anche per indirizzare le attività  di studio e ricerca
Questo articolo non vuole essere tanto una recensione del suo libro quanto l’indicazione di come una collaborazione tra studiosi e operatori possa produrre una sorta di positivo meticciato tra saperi teorici e saperi pratici che, per quanto mi riguarda, è stato straordinariamente utile al mio lavoro di operatore sociale perché mi ha abituato a considerare l’inchiesta uno strumento fondante per l’aggiornamento dei servizi. Ciò per evitare di agire nel sociale con sistemi e risposte pre-confezionate che, proprio per questo, spesso finiscono per diventare inutili o peggio ancora dannose.
Mi pare che gi esiti di tale contaminazione emergano, in termini di linguaggi, attenzioni e approcci maniera evidente nel libro di Enrica Morlicchio. Infatti, pur non rinunciando al caratterizzarsi come un utile e competente manuale sociologico sulla povertà , il libro fa trasparire un’attenzione e una sensibilità  profonda che può avere solo una persona che con tali fenomeni si relazione quotidianamente, standoci dentro in modo consapevole della delicatezza e dell’urgenza anche politica e culturale delle questioni trattate.
Il libro infatti da una parte permette al lettore di inquadrare il significato della povertà  nelle diverse epoche e nei diversi contesti sociali, analizzandone anche i criteri di misura (e le ideologie che li sottendono) e da questo punto di vista ha piena validità  sul piano accademico. All’altra parte però ha il merito di rivolgersi fuori dal mondo universitario per entrare nel merito del concreto lavoro di contrasto alla povertà  e per aiutare chi opera nei i servizi in questo ambito e con le persone in essa coinvolte, contribuendo a riorientare e indirizzare le policy a livello locale e nazionale.
Insomma un’idea di ricerca e studio che recupera tra le sue funzioni principali anche quella di dialogare e relazionarsi con la politica. Anche qui, concludendo, trovo un’altra similitudine tra il mio percorso professionale e quello della professoressa Morlicchio. Infatti, mai come oggi, sento l’urgenza di ritrovare e fare emergere in modo forte la dimensione politica e culturale del lavoro sociale, altrimenti il rischio è che i servizi territoriali, specialmente quelli rivolti alle persone più deboli e marginali, finiscano per diventare, come dice il direttore del Ferrante Aporti di Torino, delle “ultime stanze”, in cui il ruolo degli operatori e delle operatrici non sarà  più quello di costruire emancipazione e tutelare diritti, ma il contenimento delle vite umiliate e disperse dalla crisi, dall’assenza di futuro, dalla cattiveria di società  sempre più competitive e violente.
* Referente area tratta e marginalità  urbane della cooperativa sociale Dedalus di Napoli


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