L’altro rebus del segretario

by Sergio Segio | 5 Gennaio 2013 9:24

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Non sarà  solo questione di eleggere un nuovo leader – tema di per sé evidentemente enorme – ma di scegliere colui che guiderà  la forza principale su cui poggerà  verosimilmente il prossimo governo.
In gran parte dei paesi europei il leader non lascia la guida del suo partito quando, dopo la vittoria elettorale, assurge alla carica di premier o di presidente, proprio perché c’è identità  di propositi e di senso di marcia tra l’esecutivo e la principale forza parlamentare che lo sostiene. In Francia, il partito al governo è retto da una sorta di segretario organizzativo, più che politico, nel periodo in cui all’Eliseo ha il “suo” presidente. In Italia Bettino Craxi mantenne il doppio incarico e poi Ciriaco De Mita, ma fu, specie nel secondo caso, una delle ragioni dell’inizio della loro fine. Allora, tempi di prima repubblica e di forza reale dei partiti, fu considerata una concentrazione eccessiva di potere nella mani di un solo leader, a discapito delle oligarchie correntizie, e pertanto da contrastare duramente.
Nel futuro del Pd non è previsto uno scenario di “doppio incarico” né, più in generale, un ruolo di partito di maggioranza relativa come “cinghia di trasmissione” del governo. Bersani stesso ha chiarito, senza che gli fosse chiesto, che, dopo il voto, si farà  da parte, se, come si prevede, sarà  lui a dover presiedere il prossimo consiglio dei ministri. Chiaramente, questa volta, più che in passato, anzi memore degli errori del passato, Bersani cercherà  di costruire gruppi parlamentari costituiti da personaggi il più possibile in linea con la sua leadership, presto governativa, e non da personaggi da esibire nei salotti più che da far lavorare sugli scranni parlamentari, per poi vederli trasmigrare in altri partiti.
Il partito è cosa diversa. Con il suo leader a Palazzo Chigi, e presumibilmente tutti i suoi uomini di spicco nei ministeri chiave (D’Alema, Veltroni, Letta) o ai vertici del parlamento (Finocchiaro, Bindi, Franceschini), ma anche del Quirinale, il Pd, dovrà  inventarsi un suo ruolo che sia autonomo rispetto al governo, eppure non dissonante. E – appunto con i dirigenti più stagionati in ruoli governativi e/o istituzionali – sarà  naturale un salto generazionale ai vertici del partito.
Il processo che si aprirà  – se si guarda al passato – sarà  quello consueto di un congresso o di qualcosa di simile a un congresso, e durerà  mesi. Converrà  aspettare l’avvio del percorso congressuale per capire in che direzione va il dopo-Bersani. Ma già  dai nomi dei possibili aspiranti alla segreteria si può intuire che cosa potrebbe succedere. Se si osserva la dinamica politica degli ultimi tempi e si tiene conto dell’ultima “misurazione” della base elettorale democrat, il nome più forte è quello di Stefano Fassina.
Romano, 46 anni, bocconiano di formazione come il suo principale antagonista, economista con un curriculum di tutto rispetto, il più votato nelle primarie capitoline con quasi dodicimila preferenze, Fassina rappresenta oggi la vocazione “socialdemocratica” – “conservatrice” secondo chi vuole rinverdire la Dc – per una parte considerevole del popolo di sinistra che ha una storia con radici a Botteghe oscure. Le sue posizioni a favore della difesa del lavoro l’hanno fatto diventare l’uomo-simbolo del contrasto alla “deriva” renziana. Membro della segreteria del Pd, si è messo in gioco nelle primarie, con l’intento di “contare” i suoi voti anche in vista di una possibile corsa per la segreteria. Altri “giovani turchi”, come Matteo Orfini, Andrea Orlando e Roberto Gualtieri, sono della partita, in un eventuale gioco di squadra a sostegno di Fassina.
Le primarie hanno anche visto il successo di Giuseppe Civati. 37 anni, filosofia alla Statale, consigliere regionale in Lombardia, 5.503 voti sugli 8.677 elettori che in provincia di Monza, la sua città , sono andati a votare. Pippo ha brillantemente superato la “crisi” della separazione da Renzi con il quale, nel novembre 2010, aveva organizzato alla Leopolda di Firenze il “raduno dei rottamatori”. Per storia e per itinerario politico, rispetto a Fassina può essere considerato un candidato alla segreteria meglio attrezzato a tener dentro gli stessi renziani, le componenti centriste e moderate, altrimenti tentate dalla fuga verso Monti. Fassina, di converso, ha il profilo giusto per un dialogo più serrato con i vendoliani, necessario a tenere coesa l’alleanza elettorale anche in parlamento e non esporre Bersani alle stravaganze che fecero ballare i governi Prodi.
Si parla anche di Fabrizio Barca, 59 anni a marzo, economista, un passato in Bankitalia, ministro per la coesione territoriale del governo Monti. Non è tentato da una nuova esperienza governativa, sia pure in una compagine guidata da Bersani, ma sembra piuttosto interessato – come ha detto ad Antonello Caporale del Fatto – a impegnarsi in un ambito di rilancio dei partiti, “luoghi indispensabili – se aperti ai cittadini – a far rifiorire passioni e saperi”.
Candidate, per ora nessuna. A parte Anna Finocchiaro. Data in corsa però per troppe poltrone: presidente del senato, della repubblica, segretaria del Pd.

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