L’economia peggiora perché crolla il lavoro

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È del tutto verosimile che in questa situazione di crisi protratta e di occupazione in forte calo, le retribuzioni non regolate da contratti nazionali abbiano avuto una dinamica ancora inferiore. Due settimane fa sempre l’Istat ci ha informato che nel 2012 il tasso d’inflazione medio annuo è stato del 3% e l’indice armonizzato dei prezzi al consumo per i paesi Ue (Ipca) è cresciuto del 3,3%, cioè più del doppio rispetto alle retribuzioni.  Il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali è dunque diminuito dell’1,5-1,8 % (i lavoratori non regolati da contratti nazionali hanno verosimilmente perduto molto di più). 
Purtroppo non è una novità , ma è l’accelerazione di una tendenza in atto da tempo. Tuttavia il protrarsi della crisi sta scaricando i suoi effetti in maniera crescente sulla dinamica dei salari e sul potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti.
Sempre ieri il Centro studi di Confindustria, pur registrando che nel 2012 l’attività  industriale italiana è calata del 6%, ha lanciato un segnale di ottimismo che è tanto apprezzabile quanto improbabile; ha sostenuto infatti che avremmo già  toccato il fondo della congiuntura negativa perché il calo della domanda sarebbe superiore rispetto a quanto giustificato dai bilanci familiari e aziendali. Eppure è lo stesso Centro studi confindustriale a notare che la situazione occupazionale è in peggioramento poiché anche molti cassintegrati stanno terminando il periodo d’azione della Cig, diventando dunque disoccupati a tutti gli effetti e privi di ogni altro sostegno reddituale. Peraltro, quanto alle prospettive economico-sociali del nostro paese, è ancora l’Istat, sempre ieri, a ribadire che il clima della fiducia dei consumatori sta ulteriormente diminuendo: fatto 100 il valore del 2005, a dicembre 2012 era sceso fino a 85,7 e a gennaio 2013 è ulteriormente calato a 84,6. Si riducono sia l’indicatore del clima corrente sia quello riferito alla situazione futura; peggiorano i giudizi sia sulla situazione economica italiana complessiva sia su quella delle famiglie, sia le attese sulla disoccupazione sia quelle sull’inflazione. Nell’insieme, si prefigura un’ulteriore riduzione dei redditi da lavoro e del loro potere d’acquisto. Ma, a ben vedere, perché mai non dovrebbe essere così? Questa crisi nasce da motivi strutturali connessi al forte peggioramento della distribuzione del reddito nei tre passati decenni e al vano tentativo di sostenere la domanda con le bolle immobiliari e finanziarie che inevitabilmente sono esplose. 
Dopo cinque anni di crisi, le sue cause non accennano ad essere rimosse. La finanza continua ad andare per la sua strada autoreferenziale: i titoli derivati che hanno destabilizzato i mercati finanziari continuano a crescere e ad essere la maggiore fonte di guadagni delle banche (e dei bonus dei loro manager) che, invece, trattengono la liquidità  fornita loro dalle banche centrali a detrimento delle necessità  di finanziamento di imprese e famiglie. L’economia reale – a cominciare dalla distribuzione del reddito, dagli investimenti e dall’occupazione – non segnala nessun miglioramento, mentre le politiche economiche continuano a preoccuparsi prioritariamente dei bilanci pubblici i quali non possono che peggiorare visto che devono sostenere gli istituti finanziari e sono negativamente condizionati dal calo della crescita che quelle stesse politiche provocano. Le possibilità  di essere ottimisti diventano ancora meno ragionevoli se poi si pensa al potere egemonico dell’Agenda Monti – tutta intrisa della logica economica che ci ha portato alla crisi – e alla possibilità  che il suo spirito, se non la sua lettera, continuerà  ad influenzare – o addirittura a regolare – le scelte economiche dei prossimi anni; non è un caso che di queste si stia parlando poco e male nel dibattito elettorale, eppure saranno decisive per determinare le vie d’uscita – progressive o regressive – dalla crisi.


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