«La riforma del lavoro tocca alla sinistra»

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 Wolfgang Mà¼nchau, «associate editor» del Financial Times, evita qualunque commento sulle reazioni di Mario Monti al suo ultimo editoriale. Preferisce misurarsi sul merito dei problemi dell’Italia nell’euro.
Negli ultimi 15 anni il Paese è cresciuto meno di quasi qualunque altro nell’Ocse. È una crisi strutturale di lungo termine, a cui si è risposto solo sul piano fiscale?
«L’Italia vive una crisi strutturale legata alla sua partecipazione all’euro. I vari governi hanno fatto grandi sforzi per centrare i criteri per l’euro, ma hanno prestato quasi nessuna attenzione alla tenuta del Paese in un sistema in cui il cambio è fisso per sempre e non c’è unione di bilancio né — per ora — unione bancaria. In una situazione del genere, l’aggiustamento va fatto attraverso i salari e i prezzi. La produttività  stagnante è frutto dell’incapacità  cronica di compiere questi adattamenti. Lorenzo Bini Smaghi ha ragione quando osserva che l’establishment e i media in Italia non hanno colto questo problema fondamentale».
Intende dire che il debito pubblico non è il tema numero uno?
«Non come tale. Il rapporto debito-Pil è alto, ma non molto più di quanto fosse all’avvio dell’euro. La difficoltà  a ridurlo era prevedibile, senza crescita del Pil: è un sintomo della malattia, non è la malattia in sé. Dunque la politica di bilancio non può essere la soluzione: l’Italia ha già  avuto una linea molto attenta al deficit con Berlusconi e Tremonti nel 2009».
Cosa pensa avrebbe dovuto fare il governo Monti?
«La priorità  non doveva essere una correzione fiscale fatta quasi per riflesso istintivo, ma un intervento strutturale mirato. L’area più importante è il mercato del lavoro: servono riforme che elimino i disincentivi all’assunzione dei giovani e permettano ai costi dei salari reali di calare durante le recessioni e di aumentare solo se in linea con la produttività . Anche l’apertura del settore dei servizi e politiche antitrust più efficaci dovrebbero far parte del programma. Gli esempi non mancano. La Germania per esempio ha un sistema di conti personali del tempo di lavoro».
Non trova che Monti almeno ci abbia provato?
«Lo scopo di un governo tecnico non doveva essere di gestire il Paese in tutto e per tutto o diventare il trampolino di una carriera politica, ma di compiere scelte che per qualche ragione i governi eletti non riescono a perseguire. Qualunque governo, tecnico o meno, ha una dotazione limitata di capitale politico. Monti avrebbe dovuto generare politiche che potessero aumentare in modo dimostrabile la crescita della produttività  e dell’occupazione nel lungo termine».
Quella era la seconda parte del suo programma, no?
«La storia economica ci dice che i governi possono investire il loro capitale politico nelle riforme o nel risanamento dei conti, ma non su entrambi i fronti. Monti doveva scegliere le riforme e condizionare l’accettazione dell’incarico a premier al fatto che il parlamento accettasse la sua agenda di riforme, presentata nei dettagli. Invece, alla fine, il parlamento non ha accettato la sua agenda ma lui è rimasto comunque e ha prodotto il minimo comun denominatore: l’austerità ».
Come vede la sostenibilità  del debito, a questo punto?
«Se uno potesse dimostrare che l’Italia tornerà  a un tasso di crescita reale del 3% nel lungo periodo, o del 5% nominale (contando anche l’inflazione, ndr) un debito del 126% del Pil sarebbe facilmente sostenibile. Ma se uno prevede una crescita nominale a zero nel lungo periodo, l’Italia sarebbe insolvente. In entrambi i casi, in qualunque scenario di politica di bilancio. La realtà  è da qualche parte in mezzo fra questi due casi».
Cosa pensa del rapporto dell’Italia di Monti con la Germania?
«Il governo tecnico avrebbe dovuto chiarire subito ai partner dell’area euro, in particolare alla Germania, che un aggiustamento asimmetrico degli squilibri — tutto a carico dei Paesi debitori e per niente dei creditori — non è politicamente né economicamente sostenibile. In privato, sarei arrivato a condizionare la permanenza nell’euro al fatto che l’aggiustamento fosse simmetrico: con fondi comuni per la risoluzione delle banche fallite, assicurazione europea sui depositi, eurobond e politiche per ridurre i surplus verso l’estero. Non solo i deficit. Angela Merkel è contro tutte queste idee, ma non c’è niente che tema più della minaccia di un’uscita dell’Italia dall’euro. Ma l’Italia e la Spagna non hanno condizionato la loro permanenza nell’area a queste scelte e così si sono rese la vita più difficile».
Che attese ha sul prossimo governo italiano?
«La storia recente ci dice che è più probabile che i governi di sinistra — vedi la Germania o ora la Francia — avviino le riforme nel mercato del lavoro. Il prossimo esecutivo ha pochi compiti precisi: finirla subito con l’austerità , eliminare gli aumenti delle tasse più nocivi e applicare un programma di riforma, limitato ma efficace, che possa migliorare la crescita nel lungo periodo con una combinazione di maggiore produttività  e tasso di occupazione più alto».
Federico Fubini


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