Lo scandalo Lazio e i nomi inopportuni in lista

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ROMA — Siamo sicuri che l’esistenza di Giuseppe Rossodivita non cambierà  in peggio. Il suo mestiere è quello di avvocato, ed era impegnato in politica con i radicali ben prima di finire nel consiglio regionale del Lazio. Come sanno bene i molti che lo ricordano da tempo impegnato nella battaglia per restituire decenza alle carceri. Ma la notizia che né lui, né l’altro consigliere del suo partito Rocco Berardo sono nelle liste che sosterranno il candidato di centrosinistra Nicola Zingaretti suona effettivamente come una beffa. Senza l’iniziativa dei due radicali, che la scorsa estate hanno rivelato con la pubblicazione sul loro sito le dimensioni abnormi dei finanziamenti di gruppi consiliari della Regione Lazio, lo scandalo che ha poi travolto Franco Fiorito e Vincenzo Maruccio difficilmente sarebbe esploso con tanto fragore. Di più. Sarebbe continuato anche lo stesso andazzo in tutte le Regioni italiane, senza controlli della Corte dei conti e senza l’obbligo di dare trasparenza ai bilanci dei gruppi politici.
Beffa doppia, considerando che una bella fetta di quel consiglio regionale ha trovato posto sulle scialuppe di salvataggio predisposte dai partiti. Se la governatrice Renata Polverini resta fiduciosa circa la prospettiva di una candidatura in Parlamento nel centrodestra e il consigliere Francesco Storace ha pescato il jolly della candidatura a governatore, ben sei dei quattordici componenti del gruppo consiliare del partito democratico che ha partecipato con gli altri alla spartizione dei fondi sono già  stati imbarcati con destinazione Montecitorio o palazzo Madama. A cominciare da Bruno Astorre, l’ex presidente del consiglio regionale che faceva parte dell’ufficio di presidenza nel quale si deliberavano gli stanziamenti sui quali è in corso una inchiesta della Corte dei conti. Mentre va ricordato che l’intero ufficio è sotto indagine da parte della magistratura per una proroga, ritenuta illegittima, dell’incarico dell’ex segretario generale. Astorre sarà  candidato al Senato. Insieme ad altri quattro consiglieri democratici: Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Daniela Valentini e Francesco Scalia. Non Marco Di Stefano, per il quale si è aperta invece la strada di Montecitorio. Un altro dei consiglieri del Pd più in vista, Claudio Mancini, ex assessore, è rimasto invece appiedato. Si consolerà  con l’elezione della moglie Fabrizia Giuliani in Lombardia.
E il capogruppo Esterino Montino, il quale giustificò ad Alessandro Capponi una fattura di 4.500 euro spesi in una famosa enoteca, dicendo che si trattava dei doni natalizi per i bimbi delle famiglie disagiate? Escluso dalle liste per il consiglio regionale, dove fece la sua prima apparizione nel 1975, e dal Parlamento (anche lì era già  stato), proverà  il brivido di fare il sindaco. Il Pd lo candida a Fiumicino. Mentre sua moglie Monica Cirinnà  andrà  con ogni probabilità  a Montecitorio.
Non ignoriamo i meccanismi della nostra politica. È chiaro che se Zingaretti avesse fatto posto ai radicali che hanno dato fuoco alle polveri, avrebbe dovuto fare qualche concessione anche agli esclusi del suo partito. Né, pur volendo, avrebbe potuto impedire che si aprissero per loro, come si sono aperti, tutti quei paracadute.
Ma resta il dubbio, anche a causa di questa vicenda, sulla portata del rinnovamento in casa democratica: dove anche le primarie (il sistema che ha consentito per esempio ad Astorre di rientrare in gioco al Senato) hanno fatto vittime illustri. Un nome per tutti, quello di Salvatore Vassallo, che si era battuto perché andasse in porto la legge che dopo 65 anni avrebbe definito finalmente la forma giuridica dei partiti. Battaglia ovviamente persa. E vittime si sono contate anche fra coloro che grazie alle tanto criticate deroghe per quanti hanno fatto più di tre legislature complete per 15 anni di mandato, avrebbero dovuto essere «recuperati». Regola che ha determinato situazioni curiose. Per esempio quella di Mauro Agostini, cui Walter Veltroni aveva affidato i cordoni della borsa del Pd ed era stato il primo a far cadere il tabù dei controlli «esterni» sui bilanci dei partiti. Quando era tesoriere affidò la verifica dei conti del Pd a una società  di certificazione: adesso quello è per tutti un sacrosanto obbligo di legge. Avendo già  fatto quattro legislature, per 17 anni di mandato, doveva essere teoricamente escluso. Ma aveva ottenuto una deroga, che però non gli è servita perché è rimasto fuori dalle liste. Non ha fatto le primarie e nessuno l’ha chiamato. Contrariamente al suo predecessore Ugo Sposetti, che ha alle spalle lo stesso numero di legislature ma con 14 anni di mandato anziché 17.


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