Mancino: contro di me teorema senza prove

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PALERMO — Parla per difendere se stesso, ma è come se volesse scrivere una pagina di storia. La sua, che per decenni è coincisa con quella delle istituzioni: un ex ministro, ex presidente del Senato, ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura coinvolto nell’oscura vicenda della presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, quando Nicola Mancino entrò al Viminale in sostituzione dell’altro democristiano Enzo Scotti. Un avvicendamento propedeutico, secondo i pubblici ministeri, ad attenuare il «carcere duro» per i boss introdotto dopo l’attentato che dilaniò Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta.
A questa ricostruzione Mancino si ribella, e davanti al giudice che deve decidere se rinviarlo a giudizio per falsa testimonianza, accusa la Procura di aver imbastito nient’altro che «un teorema in totale assenza di prove», basato sulla «inammissibile insinuazione» che lui fosse a conoscenza dell’intenzione di ammorbidire il regime penitenziario dei mafiosi. Quando a novembre del ’93 un giornalista de La Sicilia gli chiese che cosa pensasse delle revoche decise dal suo collega della Giustizia Conso, ricorda Mancino, lui rispose che non ne sapeva niente. Gli domandarono se si poteva «allentare la morsa carceraria per non fare mettere più le bombe», e l’ex ministro dell’Interno ribatté: «Io a questo fatto mi rifiuto di arrivare. Non esiste».
Al giudice Mancino consegna la fotocopia di quell’intervista e di altri articoli di vent’anni fa con i retroscena del cambio della guardia tra Scotti e lui, oltre a una lettera di Arnaldo Forlani in cui l’allora segretario democristiano scrive: «È assurdo immaginare che ci sia stato, agli Interni o nel partito, un mutamento di linea nella lotta alla criminalità  e alla mafia. Quanto alla collocazione di Scotti nel governo, mi pare che la sua rinuncia a farne parte era esclusivamente motivata dalla incompatibilità  fra mandato parlamentare e compiti ministeriali, decisione innovativa che avevamo assunto rispetto alla quale lui aveva reagito negativamente». Oggi l’ex ministro adombra il sospetto che a Scotti, più che il Viminale, interessasse il seggio che lo metteva al riparo dalle inchieste giudiziarie: «Aveva qualche buona ragione su cui andava fatta luce».
Alla base della presunta falsa testimonianza ci sono le deposizioni di un altro ex ministro, l’allora Guardasigilli Martelli, «che si distinguono per i contenuti tra loro non coincidenti», rileva polemico Mancino. Ricordando l’intervento di un pm che durante un interrogatorio disse all’ex titolare della Giustizia: «Vediamo se possiamo aiutare la sua memoria».
Di sospetti Mancino ne ha coltivati tanti nell’ultimo anno. «Avevo la sensazione di essere vittima di un pregiudizio», racconta per spiegare le insistenti telefonate al consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, intercettate e foriere di polemiche alle quali seguì l’improvvisa morte del magistrato: «Non ho mai saputo di trattative, e a D’Ambrosio ho sempre detto di non aver mai saputo nulla di propositi di allentamento del carcere duro». Nessuna pressione né richiesta di avocazione dell’indagine secondo l’ex ministro che rivendica una correttezza che forse — afferma — non tutti possono vantare: «Ho servito lo Stato, e se altri non l’hanno ben servito io non c’entro e non posso entrarci».
Accanto al nome di Mancino, tra gli imputati per la cosiddetta trattativa ci sono anche quelli dei più noti e spietati boss mafiosi. Ieri dall’elenco è stato depennato Bernardo Provenzano, per la «incapacità  processuale» certificata dai periti chiamati a verificare le sue condizioni di salute psichica e mentale. «Non è in grado di partecipare al processo», hanno stabilito i medici che tra tante confuse risposte si sono sentiti dire dal detenuto, a proposito della sua lunga latitanza: «Tutti che ci cercavano…», e subito dopo: «Non mi cercavano tanto». La posizione del boss è stata stralciata, mentre la Procura ha aperto un fascicolo per chiarire le cause del deterioramento delle sue condizioni, accompagnato nell’ultimo periodo da continue cadute che a dicembre hanno provocato un coma da cui solo ora si sta riprendendo. Il dubbio da fugare è che qualcuno abbia provato a farlo tacere per sempre.
Giovanni Bianconi


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