Strage all’università , scambio di accuse

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Studenti e civili profughi vittime delle esplosioni che ieri hanno investito il campus universitario di Aleppo. Il bilancio varia a seconda delle fonti, ma è comunque gravissimo: almeno 80 morti, oltre a decine di feriti. Difficile stabilire i responsabili. I gruppi dell’opposizione armata accusano il regime. E in alcuni video velocemente diffusi nel pomeriggio via Internet mostrano decine di studenti in fuga dall’area devastata mentre gridano di essere stati colpiti «dall’aviazione del regime criminale, che non esita a distruggere università , moschee e chiese». Le immagini mostrano le palazzine dei dormitori con le facciate abbattute, auto in fiamme, rottami e calcinacci ovunque. Nel fracasso l’obbiettivo della telecamera trema allo scoppio di una seconda deflagrazione, i ragazzi fuggono ancora più in fretta. Tutto attorno regna il panico.
Ma non è affatto da escludere che l’attentato possa essere stato perpetrato dai gruppi di fondamentalisti islamici, che sempre più numerosi si sono uniti alla guerriglia popolare siriana. Il campus universitario si trova nei quartieri ancora controllati dalle truppe lealiste. Una zona particolarmente strategica di Aleppo. Qui nella primavera scorsa iniziarono le manifestazioni locali contro la dittatura, che avviarono le prime forme di resistenza in questa che è la seconda città  del Paese e in generale considerata a maggioranza lealista con una forte presenza di cristiani, alauiti, armeni e mercanti sunniti interessati più alla stabilità  che non alla rivolta. Ben presto però i militari fedeli ad Assad ne hanno assunto saldamente il controllo, permettendovi tra l’altro l’insediamento di profughi vicini al regime fuggiti dai quartieri via via caduti in mano ai rivoltosi. Ieri nel campus ormai affollato si stavano tra l’altro tenendo gli esami di metà  anno accademico e gli studenti erano più numerosi del solito. I media del regime accusano le brigate «terroriste» dei ribelli di aver sparato alcuni missili. Non è escluso si tratti piuttosto di due autobomba kamikaze, come è già  avvenuto nel passato a Damasco, Hama, Homs e nella stessa Aleppo, proprio nei quartieri dove la popolazione è nota per la fedeltà  alla dittatura, oppure sono situate le basi della polizia e dei servizi di sicurezza.
L’ambiguità  sulle responsabilità  dell’attentato getta ancora una volta luce sulla situazione di stallo sanguinoso che prevale nel Paese. Dopo le avanzate della primavera-autunno, le brigate ribelli sembrano ora parzialmente bloccate dalla massiccia offensiva lanciata delle forze lealiste nelle ultime settimane. L’aviazione di Assad resta padrona dei cieli e bombarda a piacimento. Le Nazioni Unite segnalano che il numero dei morti, in grande maggioranza civili, supera ormai di gran lunga i 60.000, accompagnato dall’ingigantirsi delle ondate di profughi interni e verso i Paesi confinanti. Soltanto nelle ultime 24 ore il numero complessivo dei morti potrebbe sfiorare quota 200, comprese le vittime dei bombardamenti nella regione di Damasco. Le organizzazioni umanitarie denunciano il silenzio della comunità  internazionale contro la barbarie sempre più diffusa: sarebbe in aumento il numero degli stupri di gruppo da parte di uomini armati contro donne e ragazzine, e ciò spingerebbe le famiglie a fuggire all’estero. Nei campi profughi di tende in Giordania, Turchia e Libano le condizioni di vita sono diventate molto gravi dopo le ultime nevicate e l’ondata di freddo che ha colpito tutto il Medio Oriente.


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IL PRECEDENTE «UMANITARIO»

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Obama prende tempo, dice chiaramente che l’uso della forza da parte degli Stati uniti può essere autorizzato solo dall’Onu, che già gli americani pagano il costo della guerra in Afghanistan e che è sopravvalutata la possibilità statunitense di risolvere, con le armi, quella crisi. In più i militari americani, soprattutto dopo l’esperienza tragica dell’intervento in Libia e l’evento dell’11 settembre 2012 di Bengasi, quando venne ucciso l’ambasciatore Usa Chris Stevens, sono contrari a un intervento in Siria.

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