Un cambio di agenda per la sinistra italiana

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I cinque anni di crisi globale finora trascorsi e le analisi delle cause indicano che la sua natura è strutturale e il suo superamento – che non s’intravede – comunque segnerà  una rottura rispetto al modello economico, sociale e culturale che ha dominato gli ultimi tre decenni. Il fallimento neoliberista offre alla sinistra una occasione storica di proporre e affermare valori e modalità  d’intervento che siano non solo ad essa congeniali (più equità  distributiva, maggiore interazione delle istituzioni collettive rispetto al mercato, programmazione di politiche produttive e sociali volte a riattivare la crescita lungo direttrici di superiore qualità  ecologica e sociale), ma che avrebbero la valenza generale di consentire un’uscita positiva dalla crisi. Rincorrere le impostazioni economiche drammaticamente smentire dalla crisi e precostituire alleanze di governo con chi le rappresenta è sbagliato nel merito ed è politicamente perdente anche nell’immediata scadenza elettorale perché si finisce per accreditare le proposte politiche, come quella di Monti, che rappresentano la versione originale e più riconosciuta di quella visione perdente. Gravi errori nel recente passato della sinistra sono stati determinati dal fatale connubio tra debolezze politiche oggettive e soggettivi sensi d’inferiorità  ideologici sublimati però con pretese furbizie; adesso occorre presentarsi con la chiarezza d’intenti e la responsabilità  necessarie ad affrontare la svolta che la crisi impone. Un esito positivo della crisi non è affatto scontato e comunque è irto di ostacoli frapposti proprio dagli interessi e dalle visioni che hanno condotto al disastro nel quale ci troviamo e che, pur tuttavia, sono ancora molto forti. L’esplicarsi del potenziale ruolo della sinistra richiede prioritariamente la convinzione da parte delle sue rappresentanze politiche di essere e presentarsi come pienamente capaci di assumere la responsabilità  di governare nelle istituzioni e nella società  l’attuale fase di transizione.
Un paese da ricostruire
In Italia la sinistra deve rapportarsi alla numerosità  e complessità  dei problemi di un paese che ha sessanta milioni di abitanti, è la settima economia mondiale ed è uno dei partner principali dell’Unione Europea, la maggiore area economica del mondo. Il nostro paese è poi caratterizzato da una specifica e più accentuata tendenza al declino economico-sociale che opera da almeno un ventennio; da uno storico dualismo territoriale che non ha pari in nessun altro paese europeo; dalla più accentuata presenza di comportamenti opportunistici nella classe dirigente politica (concussione, corruzione e sprechi) e in quella imprenditoriale (meno propensa all’innovazione e più a rifugiarsi nelle rendite di posizione) che si associano a carenze civiche più diffuse (l’evasione fiscale).
La mole dei problemi richiede una scelta di priorità  che – come pure i modi di affrontarli – dipende significativamente dai vincoli e dai rapporti di forza economici, sociali e politici – nazionali, europei e mondiali – presenti nell’attuale fase di transizione. Dare anche solo la sensazione di proporre una agenda che pure includendo obiettivi giusti tuttavia li collochi in un ordine di priorità  scollegato dalla loro importanza effettiva e dalle concrete possibilità  di perseguirli significa indebolire la propria proposta politica e lasciare spazio a quelle altrui.
Le contraddizioni della fase storica che stiamo attraversando pone in posizione quanto mai centrale la dimensione economico-sociale delle relazioni umane. Giustamente, nel documento di «Sbilanciamoci» pubblicato su il manifesto del 9 gennaio che avvia il dibattito su «La rotta d’Italia, un voto per cambiare» si sottolinea che «queste elezioni sono l’occasione per affrontare l’economia come può essere, a partire dalla crisi di oggi e della possibilità  di cambiare rotta che abbiamo». È necessario che anche le rappresentanze politiche della sinistra, specialmente quelle più convinte della necessità  di «cambiare rotta», abbiano e diano il messaggio di avere un proprio programma economico-sociale, operativo e coerente alle priorità  che la situazione concreta richiede, e che in tutte le sedi decisionali politiche e tecniche saranno in grado di rapportarsi con alleati ed avversari politici per avvicinarsi il più possibile ai propri obiettivi.
Il processo d’unificazione europeo ha seguito un’applicazione «stupida» della visione neoliberista, con effetti controproducenti che gravano su paesi «deboli» come l’Italia; tuttavia, per nessun paese europeo ci sono alternative migliori all’Unione che, anzi, rappresenta l’ambito più favorevole per un superamento progressista della crisi alla luce di un rafforzamento su base sovranazionale delle istituzioni collettive che dia loro maggiori capacità  d’interagire con i mercati globalizzati. L’agenda Monti è europeista (sarebbe un errore fatale lasciargli questa bandiera), ma esprime con convinzione la fallimentare impostazione seguita dalle politiche comunitarie; quella e queste non sono affatto tecnicamente ineluttabili, ma devono e possono essere cambiate secondo linee già  illustrate in altri contributi – anche di chi scrive – presenti nel dibattito sulla crisi globale.
Attacco al welfare
Un aspetto particolarmente pericoloso dell’agenda Monti riguarda le sue politiche sociali che puntano ad indebolire il sistema di welfare state per sostituirlo con iniziative di mercato che non solo discriminerebbero iniquamente le possibilità  di accesso alle prestazioni, ma sarebbero anche più costose e meno efficaci; una prova inequivocabile viene, ad esempio, dal confronto tra i sistemi sanitari pubblici europei e quello privato Usa. Il progressivo indebolimento della nostra sanità  pubblica va arrestato e invertito, eliminando anche una sua tara originaria rappresentata dalla scelta, priva di logica sociale ed economica, di spezzettare e differenziare a livello regionale l’organizzazione di un servizio sociale tipicamente nazionale.
Il sistema pensionistico pubblico non appesantisce, ma invece contribuisce positivamente al bilancio pubblico (con un flusso netto attualmente pari all’1,7% del Pil) fin dal 1998, cioè a partir da pochi anni dopo le riforme prese nella prima metà  degli anni Novanta. Ma continua ad essere indebolito nelle prestazioni e privato dei suoi flussi di solidarietà  interni per dare uno spazio sostitutivo e non aggiuntivo – come dovrebbe – alla previdenza privata la cui capacità  di copertura è minata dall’accentuata instabilità  dei mercati finanziari. L’ultima riforma del ministro Fornero ancora una volta ha individuato il sistema pensionistico pubblico per fare cassa e peggiorare ulteriormente la distribuzione del reddito a danno dei pensionati, dei lavoratori e dei giovani che già  da subito ne pagano le conseguenze in termini di maggiori difficoltà  a trovare un posto di lavoro.
Da anni pubblicazioni come il «Rapporto sullo stato sociale» prodotto nel Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università  La Sapienza analizzano criticamente le politiche del welfare operanti in Italia, offrendo proposte alternative tecnicamente dettagliate. Ma questi sono solo alcuni dei lavori già  presenti nell’ampio dibattito economico che, opportunamente implementati da nuovi contributi, potrebbero essere considerati per dare sostanza concreta ad un programma (anche dettagliato) della sinistra che ne qualifichi la capacità  di governo.


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