Dilemma tortura, storia americana

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Zero Dark Thirty è il film, diretto da Kathryn Bigelow e sceneggiato da Mark Boal, che narra il decennio di caccia a Osama bin Laden, dall’attentato alle Twin Towers fino all’omicidio dello sceicco in Pakistan. Se il giudizio della critica sul valore artistico del film è quasi unanime, violentissime polemiche ha suscitato il modo in cui Bigelow e Boal mettono in scena gli interrogatori dei sospettati appartenenti ad Al-Qaeda e l’esecuzione di bin Laden. Ed è possibile che anche in Italia il film sollevi discussioni: non a caso, la sua uscita è stata preceduta dalla traduzione, su MicroMega, dell’attacco di Slavoj Zizek alla regista (in origine su The Guardian il 25 gennaio): «non c’è bisogno di essere un moralista, o ingenuo sulle urgenze della lotta contro gli attacchi terroristici, per pensare che torturare un essere umano è di per sé qualcosa di così profondamente sconvolgente che a rappresentarlo in maniera “neutrale” – ossia neutralizzare questa dimensione sconvolgente – sia già  una forma di approvazione».
Per Zizek, Kathryn Bigelow si posiziona «senza ombra di dubbio sul lato della normalizzazione della tortura». Zero Dark Thirty «è molto peggio di 24, dove almeno Jack Bauer scoppia in lacrime nel finale della serie», conclude Zizek richiamando una precedente polemica a proposito dell’uso della tortura. All’epoca Zizek aveva articolato meglio la propria tesi, attraverso il «dilemma di Himmler»: «come compiere azioni orribili senza diventare mostri?». Himmler risolveva il dilemma in due mosse: far proprio il motto «è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare», e prendere le distanze da ciò che si fa.
Entriamo nel merito. Zdt è un ottimo film, come spesso accade con Kathrin Bigelow. Un film di radicale realismo: non nel senso in cui si decostruisce il reale per poi ricostruirlo secondo altri codici narrativi (una modalità  a cui Deleuze dava il nome di «neorealismo»), ma nel seguire la strada aperta da William Friedkin: non «ricostruire», ma «mostrare», cercando una continua sottrazione dell’io narrante, con un taglio che depriva la narrazione delle sovradeterminazioni simboliche. Soprattutto nel genere poliziesco, Friedkin ha sempre più mostrato come, presi nel loro nudo agire, il tutore dell’ordine e il delinquente siano quasi indistinguibili.
La poetica di Bigelow non è amorale presa di distanza, ma la costruzione di un sistema di segni che viene consegnata senza pre-giudizi allo spettatore. In questo modo Bigelow sfugge alla trappola dell’estetizzazione della violenza (presente in molti dei film che fanno godere Zizek), una della caratteristiche essenziali del fascismo, che nel tradurre il fatto etico in rappresentazione estetica anestetizza la capacità  di giudizio morale. Nessun trucco è utilizzato per creare qualsivoglia emozione indotta negli spettatori.
Peraltro, ci sono nel film elementi sufficienti per costruire una contro-argomentazione sull’uso della tortura: non ha evitato un imminente attentato, non è stata risolutiva (esistono gli errori umani), e in definitiva la squadra che cerca bin Laden ha avuto successo attraverso altri metodi.
In effetti la Cia e il Dipartimento di difesa statunitense hanno praticato forme di tortura quali il waterboarding, la privazione di sonno, l’umiliazione e la stress position: enhanced interrogation techniques furono autorizzate nel 2002 in un memoriale siglato dal presidente Bush jr., e rimasero in vigore fino al 2009, quando Obama ha ripudiato il waterboarding come tortura. Nondimeno, alcune conseguenze di questa pratica in Zdt sono accennate, o del tutto assenti: le informazioni false fornite sotto tortura da Khalid Sheikh Mohammed; la tortura di innocenti come Khaled El-Masri, cittadino tedesco seviziato per mesi dai torturatori della Cia – per questo l’amministrazione americana è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani.
Maya, eroina kafkiana
L’intero film ruota attorno al personaggio-Maya: una maschera dietro la quale c’è un vuoto. È un personaggio di cui non conosciamo la storia, senza relazioni affettive o amicali, mangia sempre da sola cibo-spazzatura, non ha altro interesse se non la missione che persegue da anni. Se consideriamo Zdt la seconda parte di un dittico sulla guerra principiato da The Hurt Locker, realizziamo una escalation nelle turbe mentali degli esseri umani: la guerra serve per mostrare i nudi comportamenti, senza alcuna introspezione psicologica. La guerra rappresentata parla a quella guerra senza termine che è l’esistenza: non sulla sospensione della guerra, ma sulla guerra stessa si fonda l’ordine politico che governa gli Stati.
In The Hurt Locker assistevamo alla progressiva manifestazione di disturbi della personalità  conseguenti alla quotidianità  della guerra d’occupazione in Iraq; qui abbiamo una personalità  borderline all’acme della paranoia, senza variazioni di registro. Maya è un personaggio il cui essere coincide totalmente con la propria funzione: come quel personaggio kafkiano che afferma di sé «sono un bastonatore, dunque bastono». Le ultime parole del film, nel vano dell’aereo vuoto con Maya come unico passeggero che dovrebbe portarla via dall’Afghanistan – dove vuole andare? – restano senza risposta: se, come dicono in America, casa è il posto in cui stai bene, non c’è posto sulla terra nel quale Maya possa sentirsi a casa propria, men che meno là  dove si è soli con sé stessi. Maya è un Giona destinato a rimanere per sempre nel ventre della balena.
Dopo il «Maratoneta»
Ma c’è qualcosa delle critiche a Zdt che resta sospeso. È ancora Zizek a fornirci un elemento disturbante: «La normalizzazione della tortura in Zero Dark Thirty è un segno del vuoto morale a cui ci stiamo gradualmente avvicinando. Provate a immaginare un ‘grande’ film di Hollywood che descrivesse la tortura in modo simile 20 anni fa. È impensabile».
In realtà , in passato Hollywood ha descritto in modo ben più crudele la tortura in Il maratoneta, senza che la perfomance di Laurence Olivier nel sadico dott. Szell suscitasse accuse di pornografia della violenza, o di attenuazione della soglia di accettazione. Cos’è cambiato, dal Maratoneta a Zdt?
Per capirlo dobbiamo tornare a interrogarci sulla tortura, e chiederci cosa essa sia. Michel Foucault ha studiato il tema della confessione come iscrizione del soggetto all’interno di un registro di verità . Ma nel caso della confessione sotto tortura, il soggetto rivela non la verità  su se stesso, ma sulla propria iscrizione all’interno di un registro di veridizione che è quello del torturatore: invera un effetto di verità  che è già  presupposto, e al quale si chiede conferma sotto forma di prova.
E qual è questa storia al cui interno viene chiesto al torturato di iscrivere la propria persona? Quella che va dalle voci delle vittime all’interno delle Twin Towers all’identificazione del cadavere di Osama bin Laden. Una storia che conosciamo già , della quale sono già  noti gli eventi e le gerarchie, che non richiede la sorpresa dello spettatore. Qui si manifesta uno scarto tra la narrazione di Zdt e quella del modello del Friedkin poliziesco (ma anche The Hurt Locker): Friedkin richiedeva allo spettatore un lavoro di ricomposizione dei segni attraverso lo svolgimento dell’inchiesta poliziesca, la cui conclusione non era già  data. In Zdt che la storia si concluda con la vittoria dei «buoni» e la morte del «cattivo» lo sappiamo prima ancora di acquistare il biglietto.
Zdt, ci informa la prima inquadratura, «è basato su informazioni di prima mano»; il suo svolgimento ha la funzione di «reintegrare, all’interno di una struttura agonistica, le forme nelle quali la verità  delle forze doveva ritualmente apparire», di « far apparire alàªthes ciò che è vero» (Michel Foucault, Mal faire, dire vrai). Questa procedura «aleturgica» è una forma pre-giuridica, che precede il diritto: tale è il diritto imperiale che si arroga, in nome della sicurezza della società , la decisione di sospendere la Costituzione e sostituirla con procedure amministrative per effetto delle quali la violazione dei diritti umani diventano «tecniche d’interrogatorio».
Il diritto di morte
Nella più completa con-fusione e sovrapposizione di ruoli tra guerra contro il nemico e tutela dell’ordine, con un’operazione di polizia internazionale può essere decretata l’eliminazione di un potenziale nemico di cui non è possibile, o consigliabile, procedere all’arresto: il potere sovrano si riappropria del diritto di morte che aveva (in apparenza) ceduto sul nascere della modernità , mantenendo al tempo stesso il potere sulla nuda vita. Che poi le cose siano davvero avvenute come le «fonti di prima mano» hanno narrato, è un altro paio di maniche. Che i Navy Seals veglino sulla nostra sicurezza, e che qualche NSs e un po’ di waterboaring rendano sicure le nostre esistenze, che il diritto possa essere sostituito, come certi autori di trattatelli in stile «Schmitt for dummies» sostengono, da un mero calcolo dei costi e dei benefici, sono favole a cui solo qualche coglione dovrebbe credere, e che invece, suo malgrado, questo film contribuisce a dare valore di verità .
Un tradimento di se stesso
In cosa, al fondo, Zdt tradisce la propria poetica? Non nella «presa di distanze», come crede Zizek, ma nel suo opposto: in una insufficiente distanza tra la narrazione e la «realtà ». La «realtà » di cui si dà  rappresentazione «vera» in ZDT è una sequenza, con forza performativa di veridizione, nella quale il punto di avvio e ogni scansione nella punteggiatura e nel fraseggio, ogni inclusione ed esclusione di alternative possibili, sono dettati dal potere.
Zdt è embedded non tanto verso il governo degli Usa, ma verso il «reale»: tradisce la propria poetica nell’adesione al paradigma della «vera rappresentazione del reale», contro il quale si scagliava David Foster Wallace nella sua celebre polemica contro Brett Easton Ellis: «Siamo d’accordo un po’ tutti che questi sono tempi bui, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di opere letterarie che non facciano altro che mettere in scena il fatto che tutto sia buio e stupido?».
Siamo tutti d’accordo? Essere, solo per limitarci al periferico angolo di mondo ai confini dell’Impero nel quale ci è dato vivere, cittadini di un paese che ha conosciuto l’uso della tortura «a fin di bene» negli anni Settanta-Ottanta, e poi delle degenerazioni scaturite dalla sua impunità , fino a Bolzaneto e alle morti per mano delle forze dell’ordine (bastano i nomi di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi), in assenza di una legge che istituisca il reato di tortura, è abbastanza per parlare di dark and stupid times? Proseguiva Dfw: «Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità  di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità  e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità  dei tempi»: quegli stracci e rifiuti di cui parlava Walter Benjamin, che costituiscono il rimosso della storia e della narrazione. Ogni narrazione che non cerchi di usare gli stracci della storia finisce, suo malgrado, nel riproporre l’ambigua possibilità  di assuefazione all’interno della denuncia.
Come ricorda Mauro Palma nella postfazione a un libro che proprio in questi giorni viene pubblicato – Patrizio Gonnella, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica, DeriveApprodi -: «le immagini di Abu Ghraib che prepotentemente sono entrate nella quotidianità  familiare attraverso i vari media hanno sì fatto comprendere che la tortura non è qualcosa del lontano passato o qualcosa che riguarda regimi dittatoriali. Ma, al contempo, hanno quasi determinato un’assuefazione a tale pratica o quantomeno l’hanno fatta riemergere come una delle opzioni, negative, ma possibili».

Sul sito internet di Uninomade è comparso una saggio a firma dello stesso autore dedicato al film della Bigelow


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