I big però sono pronti a larghe intese

by Sergio Segio | 27 Febbraio 2013 8:34

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ROMA — Governo di minoranza, di scopo, di salute pubblica, governo tecnico, governo Monti o simil-Monti per tornare al voto subito dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato… Nel Partito democratico circolano molte idee e altrettanta confusione.
In conferenza stampa il segretario Pier Luigi Bersani sembra aprire la porta a Beppe Grillo, ventilando la possibilità  che il suo movimento possa ottenere persino la presidenza di uno dei rami del Parlamento. Ma quello del segretario appare più un tentativo di prendere tempo e tenere unito il partito. In realtà , già  ieri a Largo del Nazareno circolava il possibile organigramma di un governo delle larghe intese con Giuliano Amato come possibile premier. La verità  è che siamo ancora alle schermaglie tattiche: Bersani e i dirigenti del Pd devono far passare un congruo lasso di tempo dalle elezioni prima di poter affrontare l’ipotesi di dare vita per la seconda volta a una maggioranza anomala. «Temo che questa legislatura non durerà  quanto avremmo dovuto», ha ammesso ieri mattina il leader del Partito democratico, conversando con qualche collaboratore. Ma Bersani, comunque, è contrario a tornare alle elezioni a passo di carica: «Il Paese non se lo può permettere».
Nel frattempo, il Pd dà  di sé l’immagine di un partito che torna a dividersi sulle possibili opzioni politiche. I giovani turchi come Stefano Fassina e Matteo Orfini non vogliono sentir parlare di «governissimo»: loro puntano sui «5 Stelle». Per Orfini, «è impensabile fare un governo senza Grillo», mentre è «contronatura pensare di mettere in piedi un esecutivo con Monti e il Pdl». E il consigliere principe del segretario, Miguel Gotor, corteggiava il Movimento 5 Stelle addirittura prima dell’esito elettorale, sostenendo che il Partito democratico avrebbe dovuto aprire un confronto con quel mondo. I dirigenti più importanti del partito, però, ritengono che un esecutivo che affida le sue fortune ai grillini rischia di terrorizzare i mercati e di avere l’ostilità  di Giorgio Napolitano. Non la giudicano un’ipotesi praticabile né auspicabile. Massimo D’Alema, per esempio, ritiene che il Pd debba affidarsi al capo dello Stato, senza fare colpi di testa.
Quello che l’ex premier pensa di Beppe Grillo ha avuto modo di dirlo più volte: «Uno come lui può produrre conseguenze gravi sul lavoro, i risparmi e la vita degli italiani: terrorizza gli investitori». D’Alema, che, come è noto, non si è candidato in Parlamento in questa legislatura, non ha però intenzione di mollare la vita politica. Come ha avuto modo di spiegare di recente durante la presentazione del libro-intervista di Peppino Caldarola con Miguel Gotor. Al consigliere di Bersani che sottolineava come l’ex premier avesse concluso la sua carriera politica, D’Alema ha replicato: «Quella parlamentare semmai». Quindi è chiaro che l’ex presidente del Consiglio a un certo punto farà  pesare la sua parola e la sua opinione. Paolo Gentiloni è convinto che il Partito democratico «più che ipotizzare maggioranze teoriche deve assecondare Giorgio Napolitano e i tentativi che farà  per dare uno sbocco a questa situazione». Una convinzione analoga a quella di Walter Veltroni. Insomma, i pezzi da 90 del Partito democratico temono una deriva per il Pd tipo Unione. O anche peggio. E guardano con diffidenza al fare insistente con cui Nichi Vendola cerca di spronare il segretari ad agganciare a tutti i costi Grillo. Ma questa per il leader di Sel è una strada obbligata: il rischio, altrimenti, è che il suo movimento venga escluso dai giochi politici, perché è chiaro che una delle conseguenze di un eventuale governissimo sarebbe proprio questa.
Nel frattempo ci si interroga anche sulle reali intenzioni di Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, come dice lo stesso Bersani, «in questa fase resterà  alla finestra». E, soprattutto, non colpirà  il segretario, né tanto meno ne chiederà  le dimissioni. Anche se qualcuno tra i suoi pasdaran lo farebbe volentieri e si stupisce del perché Bersani non abbia pensato lui a presentarsi dimissionario già  ieri. Renzi attende che i fatti della politica gli diano ragione e che alla fine il Partito democratico ammetta che ciò che il primo cittadino rottamatore sosteneva nella campagna per le primarie è vero. Ossia che se si fosse presentato lui al posto dell’attuale leader il Pd avrebbe preso il 40 per cento, Silvio Berlusconi non si sarebbe presentato e Beppe Grillo non avrebbe avuto l’exploit che ha avuto. E i primi segnali in questo senso già  ci sono se il sindaco di Bologna Virginio Merola, finora bersaniano doc, ieri ha dichiarato: «Credo che Renzi sia il rinnovamento».
Il segretario, che ieri in conferenza stampa sembrava provato, e dava l’aria di non avere ancora deciso che cosa fare e come uscire dalla situazione in cui il Pd si è infilato, esamina tutte le ipotesi sul tappeto. E invita alla prudenza i compagni di partito: «Facciamo un passo alla volta, evitiamo di peggiorare la situazione». Intanto stila il programma di governo: riforma elettorale, taglio dei costi della politica, dimezzamento dei parlamentari, provvedimenti anticorruzione e conflitto di interessi. Un programma che potrebbe interessare ai grillini, ma soprattutto un programma che consentirà  al segretario di provare ad avere un mandato, anche solo per uscire di scena.

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