I vicoli ciechi della terza via

by Sergio Segio | 8 Febbraio 2013 7:51

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Da una parte, i teorici che, deterministicamente, sostenevano lo sviluppo di una società  non mercantile grazie alla diffusione di uno stile di vita che aveva nel web la sua espressione più evidente: condivisione del sapere, delle informazioni, riduzione al minimo delle gerarchie, rifiuto di una divisione del lavoro tra progettazione e esecuzione, una concezione del pubblico dominio che relegava la proprietà  privata al semplice possesso di beni materiali e immateriali, ma non ai mezzi di produzione. Uno stile di vita egemone su Internet.
Dall’altra parte, era altrettanto evidente che le imprese non fossero rimaste con le mani in mano e fossero partite alla conquista del cyberspazio, provando a introdurre una logica economica fino ad allora marginale su Internet. Bauwens proponeva già  – e continua tutt’ora a proporre – una terza via. Compito dei mediattivisti, ma anche di ricercatori e sviluppatori di software è di dare vita ad attività  produttive incardinate appunto sulla reciprocità , la condivisione, l’assenza di rigide gerarchie, principi solidaristici se non egualitarie. Poi come un virus, questo modello poteva superare quel confine mobile dello schermo e diffondersi nella società .
La proposta politica era dunque di immaginare un processo di trasformazione «virale» della realtà . Nessuna conquista del palazzo di Inverno, bensì lo sviluppo di un forte e dinamico settore economico non capitalistico che dalla Rete poteva tracimare nella produzione di merci en general. Il progetto che ha animato l’esperienza della Peer to peer foundation fondata dallo stesso Bauwens è questo.
La sua efficacia è però inversamente proporzionale all’impegno, al rigore del suo ispiratore. Siamo cioè ancora alla dichiarazioni di intenti, all’analisi della tipologia di produzione contemporanea e dei molti nodi che tale progetto non contemplava. Un’attività  produttiva deve infatti accedere a finanziamenti iniziali, alla distribuzione dei beni prodotti. Alla retribuzione di chi vive di quel lavoro, senza incorrere nelle trappole e nei vincoli della società  capitalistica. Bauwens ha studiato, e molto, le esperienze del mondo cooperativo europeo, ha rispolverato i testi del socialismo utopico ottocentesco e, novello globe trotter del mediattivismo, ha stabilito rapporti e relazioni con il mondo del microcredito, dell’economia di sussistenza e informale nel Nord e nel Sud del pianeta (vive da anni, per scelta, in Thailandia). Ma la sua vision è ancora considerata il sogno eccentrico di un utopista.
Serve tuttavia una buona dosa di attitudine materialista per capire i limiti della riflessione di Bauwens. In primo luogo, il peer to peer è stato vivisezionato, studiato, usato come arma retorica proprio da quel capitalismo che Bauwens voleva contrastare. Ormai la peer to peer production compare negli immaginifici saggi dedicati alla Rete, tesi a legittimarne solo l’uso capitalistico.
Ma sarebbe comunque sbagliato pensare di essere in presenza di un lineare movimento dialettico, dove la cooperazione sociale produca innovazione e le imprese se ne approprino. Quello che i teorici del «capitalismo senza proprietà  privata» rimuovono o cancellano sono due aspetti che hanno un rilevante peso specifico nella vita on line. La proprietà  privata non coincide solo con il possesso di un bene, ma con l’appropiazione della ricchezza prodotta da un regime del lavoro salariato, indifferente ormai alle forme giuridiche del rapporto di lavoro. Se si usa questa antica griglia analitica sulla «totalità » dell’attività  produttiva, le tesi di Michael Bauwens rivelano sì i propri limiti, ma continuano a rappresentare un tentativo di immaginare forme di vita postcapitalistiche. Una pratica teorica – recentemente Bauwens è stato indicato come il teorico più radicale dell’economica del dono – con cui dialogare, mantenendo però un punto fermo che tali tesi cancellano. Che mille fiori sboccino pure secondo i principi della peer to peer production. La posta in gioco non è però limitata allo sviluppo di attività  economiche basate «cooperative», bensì nel portare il conflitto la dove c’è produzione di merci. Senza indugiare nel mimetico linguaggio del mediattivismo, Michel Bauwens costringe a misurarci con la necessaria organizzazione e autorganizzazione del lavoro vivo, dentro e fuori la Rete. Solo così la peer to peer production può avere la capacità  di rendere realistico il motto, a cui Bauwens è molto affezionato, di un altro mondo possibile.

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