In Mali le cose si complicano?

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Giovedì un gruppo di militanti islamici ha attaccato la città  di Gao, nel centro del Mali. I soldati dell’esercito governativo maliano sono rimasti inchiodati per sei ore nelle loro caserme dal fuoco di armi automatiche e di missili. Soltanto l’intervento dei soldati francesi ha costretto i ribelli a ritirarsi. Secondo alcuni esperti, questo attacco è la prova che i gruppi islamici hanno armi a sufficienza da poter tenere in piedi una guerriglia per anni.

Quello di giovedì è solo l’ultimo degli attacchi avvenuti nelle zone già  liberate contro l’esercito maliano e le forze di intervento francesi (e degli altri paesi africani intervenuti). Tra l’8 e il 10 febbraio, sempre a Gao, sono avvenuti i primi due attacchi suicidi della storia del Mali. Nei giorni successivi i ribelli hanno attaccato una colonna di soldati del Ciad e un’altra colonna di soldati francesi, causando un morto nell’esercito francese, il secondo dall’inizio delle operazioni.

Dopo i primi successi dell’”Operazione Serval”, il nome dell’intervento militare francese in Mali iniziato l’11 gennaio scorso, molti commentatori e analisti avevano previsto che i ribelli avrebbero cambiato strategia, passando dall’occupazione di città  e capisaldi a una guerriglia fatta di agguati e attentati. L’avanzata delle forze francesi nelle scorse settimane non ha quasi mai incontrato resistenza e i ribelli hanno sempre preferito ritirarsi e conservare le forze piuttosto che affrontare direttamente l’esercito francese.

Un esercito che, come ha ripetuto il presidente francese Franà§ois Hollande in questi giorni, non intende restare ancora a lungo in Mali e, gradualmente, prima della fine del mese prossimo, dovrebbe essere completamente ritirato e sostituito da forze africane. Una cosa è chiara infatti: come ha dimostrato l’attacco a Gao giovedì scorso, l’esercito maliano non è in grado di fronteggiare i ribelli da solo. Mancano le armi, le munizioni e le uniformi, mentre la struttura di comando è corrotta e inefficiente.

Non sembra una situazione destinata a migliorare: Stati Uniti e Francia hanno offerto un totale di 150 milioni di euro di aiuti, ma tutti in materiale “non letale”: uniformi, protezioni antiproiettile, torce, mappe. Il timore è che le armi sopravvivano al governo che sono destinate a difendere e finiscano al mercato nero, il che sembrerebbe essere proprio quello che è successo in Libia.

A quanto pare, i ribelli che hanno assaltato Gao giovedì erano armati con alcuni cannoni senza rinculo da 106mm, armi montate su camion che sparano proiettili perforanti, che quasi certamente erano le stesse armi vendute dagli Stati Uniti alla Libia negli anni ’50. Non soltanto i cannoni, ma anche le armi automatiche e soprattutto le moltissime munizioni che i ribelli sembrano possedere arrivano probabilmente dalla Libia.

Secondo alcuni esperti e diplomatici africani, al collasso del regime di Gheddafi, la NATO ha compiuto molti sforzi per impedire che dagli arsenali dell’esercito libico venissero rubati i lanciamissili terra-aria portatili, armi con le quali si potrebbe abbattere un aereo di linea. Ma pochi sforzi sarebbero stati compiuti per tenere al sicuro i depositi di armi leggere e di munizioni: depositi a cui i mercenari maliani al servizio di Gheddafi avevano accesso e che i miliziani islamici avevano i soldi per acquistare una volta trafugati.

Quella di affrontare ribelli bene armati e dotati di riserve di munizioni quasi infinite è una situazione completamente nuova per l’esercito del Mali. Negli ultimi vent’anni l’esercito ha affrontato e sconfitto diverse volte i ribelli della minoranza Tuareg del nord del paese. All’epoca i ribelli avevano così poche munizioni che erano costretti a tenere i loro AK-47 impostati su “colpo singolo”. Una situazione completamente diversa da quella di giovedì, quando i ribelli hanno continuato a sparare senza sosta per sei ore, costringendo i soldati del Mali a restare chiusi nelle loro caserme.

Foto:  AP Photo


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