La carnalità  del linguaggio

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Linguista, autore di una appassionante Breve storia del verbo essere (Adelphi, 2010) e del recente The Equilibrium of Human Syntax. Symmetries in the Brain (Routlege, 2012), Andrea Moro dirige il Centro di ricerca in neurolinguistica e sintassi teorica Ne.T.S. della Scuola universitaria superiore dell’università  Pavia, dove conduce ricerche sulle basi neurobiologiche del linguaggio, i correlati cerebrali della sintassi, ossia della capacità  che ha solo la specie umana di combinare insieme delle parole per costruire frasi e lo studio delle strutture formali che caratterizzano le lingue umane.
Studioso e allievo di Chomsky, questa sera (oggi, palazzo del Broletto, 18,30) Moro discuterà  con Massimo Cacciari del tema «Parlo dunque sono. Da Platone a Chomsky», inaugurando il ciclo di conferenze organizzate proprio dalla Scuola superiore universitaria Iuss di Pavia.
«Accada quel che deve accadere, io voglio vedere il seme da cui provengo, anche se è umile». Sono parole di Edipo, dalla tragedia di Sofocle, che lei pone in esergo al suo ultimo libro «Parlo dunque sono» (Adelphi, 2012). La questione di Edipo ci interroga sul senso stesso del nostro porre continue domande su di noi, sulla nostra storia, su un destino che in qualche modo, anche solo come «immagine», sembra schiacciare l’autonomia stessa della domanda e condizionare in modo disperante la risposta…
Sofocle usa due termini, genos e sperma. La prima volta, Sofocle parla proprio di un seme fisico, ossia di quel pezzettino di mondo da cui scaturisco io come individuo. C’è poi una sequenza di semi che stanno prima di me – mio padre, mia madre, mio nonno – alla quale diamo nome «origine». Interrogarsi sull’origine dell’uomo, significa allora interrogarsi su una doppia profondità , che Sofocle aveva ben presente: l’origine di me come individuo e di me come storia di individui. La stessa cosa avviene quando l’uomo guarda il linguaggio – il suo seme – e questa doppia profondità  gli è ben presente. Da un lato, infatti, si chiede come fa da bambino a imparare proprio quella lingua e, dall’altro, se siamo così diversi che cosa ha innescato questa diversità  originaria. Soprattutto col linguaggio, chiedere perché parliamo significa cercare di capire da dove veniamo. Il problema non ha nulla di mistico, intendendo il termine in senso deleterio, e la questione della doppia origine ha probabilmente una risposta unica: l’origine come stirpe e l’origine come individuo si trovano dentro di me in quanto organismo biologico.
La formula parlo dunque sono, «loquor ergo sum», riporta quindi dritta alla questione dell’identità …
Viviamo immersi in una dimensione creativa della realtà  che, se fa in modo che ci parliamo, ci fa anche dimenticare di essere fatti dall’ottanta per cento di acqua e il cervello di un uomo costituisce mediamente il due per cento del suo peso corporeo. Siamo fisici, siamo realmente fatti di carne. Immaginare che il linguaggio sia del tutto astratto e non abbia fisicità  significa porsi in una prospettiva sbagliata.
Soltanto se si considera la «carne del linguaggio» si può porre in una giusta dimensione la domanda evolutiva. C’è una cosa, d’altronde, che Cartesio sapeva bene, ma è passata dal livello metaforico al livello esplicito e scientifico con Noam Chomsky negli anni Cinquanta del secolo scorso: soltanto noi esseri umani siamo capaci di questa capacità  matematica e combinatoria che è la sintassi. Una capacità  che ci spalanca verso l’infinito. Cartesio lo sapeva, ma oggi il fenomeno è diventato matematicamente descrivibile. Da un lato abbiamo, quindi, la scoperta che la sintassi è lo spartiacque tra gli esseri umani e tutti gli altri esseri viventi. A questa scoperta si potrebbe obiettare che anche i pipistrelli sono gli unici che si muovono guidati dal sonar, ma qui non stiamo dicendo che il linguaggio umano è una caratteristica dell’uomo. Qui stiamo dicendo che il linguaggio umano è una caratteristica che ha solo l’uomo e tutti gli altri esseri viventi no. Siccome, nel bene e nel male, sul pianeta l’uomo ha tutt’ora una sua centralità , capire come funziona il «suo» linguaggio è un fatto non proprio privo di conseguenze. Dall’altro lato, poi, una serie di esperimenti tra cui quello condotto nel 2003 sulle lingue impossibili ci ha finalmente mostrato che questa caratteristica unica non è un fatto culturale, ma è un’espressione della carne.
Gli esperimenti hanno dimostrato che il fatto che cervello sappia riconoscere le strutture ricorsive viene attestato dalla misurazione del flusso ematico nel cervello, quindi dalla cosa «meno culturale» che ci possa essere: movimento di un liquido all’interno del nostro corpo. Potremmo dire, con una battuta, che siamo arrivati a capire che la carne si è fatta logos, nel senso che le regolarità  che anche io e te stiamo utilizzando proprio qui e ora, mentre parliamo, non sono il frutto di una sedimentazione culturale di qualche migliaio di anni, ma sono il frutto del modo in cui noi siamo costruiti come esseri biologici.
Se mettiamo assieme l’unicità  della sintassi come prodotto che porta all’infinito che abbiamo solo noi e la naturalizzazione della sintassi nel cervello espressione della carne, le conseguenze e le domande che si spalancano sono enormi e portano dritte a una riedizione del problema dell’identità . Partendo da qui si è portati a chiederci che cosa fa del cervello umano un cervello umano e, da qui, perché la natura ha questo punto di svolta nell’essere umano. Sono uomo in quanto sono dotato, come specie non come individuo, di una specificità  che non ha nessuno ed è frutto della mia struttura fisica. In qualche modo, con un’altra battuta, potremmo dire che sì, il linguaggio dipende dal cervello ma non è indifferente al fatto che io abbia gambe, braccia, naso, bocca. È la struttura.
Torna qui in gioco anche l’idea di istinto, a cui Noam Chomsky si è spesso richiamato. Potremmo dire che, citando lo stesso Chomsky, l’uomo che ha appreso una lingua è come il ragno, non impara a tessere la sua tela perché un esemplare più adulto e esperto glielo ha insegnato, ma perché ha un cervello da ragno…
In realtà , quest’idea dell’istinto è una citazione da Darwin il quale, da parte sua, afferma che quando impariamo a camminare, non impariamo a farlo perché culturalmente predisposti alla marcia, ma perché abbiamo l’istinto per alzarci in piedi e andare. Il fatto che il linguaggio fosse un’espressione della natura e non della cultura lo sapeva anche Platone, ciò che si fa ora è dare un inevitabile formalismo matematico complesso alla struttura e, dall’altro, offrire prove sperimentali che questo istinto è un’espressione della carne.
Nella linguistica contemporanea, la ricerca sembra essersi concentrata attorno alla questione di una lingua possibile e delle lingue impossibili. Ne «I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili» (Longanesi), lei ha richiamato uno dei punti cruciali della linguistica e delle neuroscienze cognitive contemporanee: la scoperte che le grammatiche possibili non sono infinite e che il loro numero è limitato biologicamente.
Questo si era capito ben prima che arrivassero le neuroscienze – ricordiamo che l’osservazione del cervello «in vivo» e «in movimento» è possibile solo dagli anni Ottanta del secolo scorso – semplicemente osservando gli errori che fanno i bambini. Un esempio: se il nostro lettore dovesse apprendere per imitazione, semplicemente osservando, come si fa una radice quadrata, gli errori del nostro lettore sarebbero tantissimi. Invece, quando i bambini convergono verso la propria grammatica, soltanto un certo numero di errori vengono fatti. Questo vuol dire che il bambino ha una specie di «setaccio», una guida formata prima dell’esperienza e sulla base di questa guida gli fiorisce in testa il linguaggio. La differenza, rispetto al passato, sta proprio nel fatto che siamo in grado di capire, con un’adeguatezza formale maggiore, che cosa sono queste strutture, quali sono le proprietà  matematiche che hanno e che la loro complessità  fa presupporre una guida precedente all’esperienza.
Il secondo passo consiste nel capire che se è precedente all’esperienza, questa guida deve comunque essere sviluppata come istruzione di tipo biologico o neurobiologico. Le indagini che si stanno facendo ora mostrano che quel nucleo di regole comune a tutte le lingue è in realtà  il prodotto di alcuni circuiti neuro cerebrali. Circuiti che non ti dicono quale sarà  la frase che dirai domani, lasciandoti completamente libero. Assomigliano all’anatomia di una mano che, se studiata, non ti potrà  certo svelare se darai un pugno, una carezza o farai un cenno di saluto a un amico.
Le lingue umane sembrano strutture troppo complesse perché vengano apprese sulla base dell’istruzione o dell’imitazione. La complessità  è tuttora un elemento critico, la si confonde spesso con oscurità  descrittiva…
La complessità  è una delle questioni centrali del tema. Complessità , non significa oscurità . Noi, come essere viventi, siamo sottoposti a degli stimoli che sono in qualche modo immediati. Facciamo un esempio: il movimento del sole attorno alla terra, la crescita di una pianta a partire da un seme. Questi sono i dati che noi percepiamo. Il problema nasce invece quando nella nostra testa ci chiediamo se due fenomeni che non sembrano correlati uno con l’altro in realtà  sono causati dallo stesso principio. Da una parte, il prototipo di questo tipo di domande è quello ben noto del movimento della luna e della caduta di una mela verso il basso: qui ci voleva solo un matto come Newton per ipotizzare che tanto il movimento della luna, quanto il movimento locale della mela fossero dovuti a un medesimo sforzo.
C’è un passo bellissimo di Lucrezio nel De rerum natura. Lucrezio affermava che tutti i movimenti sono verso l’alto e i movimenti che sembrano verso il basso ci appaiono così per la diversa densità  degli elementi. La questione complesso-semplice nasce nella testa dell’uomo e nasce tutte le volte che l’uomo si chiede «perché», legando questo «perché» a fatti magari molto semplici come il fumo della sigaretta che sale verso l’alto o una pigna che cade da un albero verso il basso.
In un testo da lei tradotto anni fa, per i tipi del Saggiatore, Noam Chomsky sosteneva che «è importante imparare a stupirsi di fatti semplici». Eppure, proprio la linguistica chomskyana viene spesso accusata di essere troppo oscura…
Il sorgere della complessità  anche dentro fatti semplici lo possiamo capire tornando all’intuizione che ebbe Galilei: quando per capire qualcosa devi tradurlo in simboli dotati di regole, a quel punto per capire quella cosa devi passare attraverso questi simboli. Nessuno si stupisce del fatto che per calcolare la densità  atomica di un elemento si debba far ricorso a equazioni meccanico-quantistiche difficili o che per sapere a che punto sarà  una galassia tra due milioni di anni sia necessario lavorare con un computer altamente complesso. Il problema sta nel capire perché questo tipo di difficoltà  di calcolo e comprensione può nella cosa che riteniamo più naturale e chiara di tutte: parlare.
Secondo me questa complessità  diventa chiara in due condizioni. Diventa chiara, in primo luogo, nel fenomeno di apprendimento spontaneo delle lingue in un bambino. Quando osserviamo un bambino che impara a parlare, il fatto che sappia identificare i vettori del linguaggio, ossia le parole e i suoni , e li sappia comporre senza prima incorrere in tutti gli errori possibili fa vedere che in qualche modo il bambino ha dentro di sé questa complessità  che lo guida. Pensiamo al fatto che un bambino non sbaglia mai a mettere l’articolo davanti al nome, non dirà  «mamma la» o «papà  un», chiaramente nella lingua basca farà  il contrario, poiché il basco è lingua nome-articolo. Questo è un primo momento, poi c’è il secondo, segnato dall’apertura dello sguardo sull’oggetto fisico che produce questa regolarità .
Un chilogrammo è mezzo di materiale umido che abbiamo tra le orecchie e chiamiamo cervello è stupefacente. Se guardiamo un fegato, osserviamo che il fegato produce enzimi a contatto con stimoli esterni, ad esempio la digestione. Lo stesso si può dire della milza, dei polmoni o dei reni. Il problema è: come possiamo spiegare che cosa avviene nel cervello quando il prodotto, anziché essere un enzima è una frase? È a questo punto che la complessità  diventa un fenomeno che sfugge anche nella sua natura, non solo nella sua descrizione. Noam Chomsky non è oscuro. Chomsky appare oscuro, perché oscuro appare il nostro cervello. Ciò che di importante Chomsky ci ha però insegnato a fare è stato passare attraverso un’apparente complicazione dei dati, per arrivare a una semplificazione superiore. Questo è il prezzo che dobbiamo pagare per la comprensione dei fenomeni. Jean-Baptiste Perrin, premio Nobel per la fisica nel 1926, a questo proposito ricordava che il compito dello scienziato è quello di passare dal complesso-visibile, al semplice-invisibile, ovvero «spiegare ciò che è visibile e complicato con ciò che è semplice e invisibile».
Ad esempio, due esservi viventi come una libellula e una balena sono due «oggetti» completamente diversi, ma a livello di descrizione del Dna si capisce che sono soltanto quattro basi annotate e combinate in modi e differente. Quattro cose all’interno delle quali puoi generare una marea o una libellula. Allo stesso modo succede col linguaggio, soltanto che qui siamo molto più indietro rispetto alla comprensione di «che cosa» genera le varie lingue e non è nemmeno detto che ci si arriverà  mai. Dovremmo infatti sfatare questo mito sottotraccia della «scoperta» del nocciolo di tutto. La pretesa di cogliere questo nocciolo è quasi mistica, nel senso deteriore del termine. Noi possiamo capire dei pezzi del mondo. Chi parla di «teoria del tutto», sia che si riferisca alla fisica, sia che si riferisca al cervello, è secondo me totalmente fuori strada. La realtà  ci viene incontro con una complessità  che ci sormonta, anche nel linguaggio. Spiegare il linguaggio è impossibile, possiamo però spiegare alcuni aspetti del linguaggio. È questo lo stupore di cui ci parla Chomsky. Stupirci di fatti semplici è la cosa più complessa che ci sia, mi creda. È lo spavento di Edipo, ma è al contempo la nostra volontà  di capire da dove veniamo, di cogliere il seme, «anche se umile», accada quel che accada.


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