La «fabbrica Cina» si sindacalizza e gli investimenti tornano a Ovest

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«Cina fabbrica del mondo». Sarà  un cambiamento di stagione per l’intera economia globale. Ieri, il quotidiano Financial Times ha rivelato che la più grande impresa privata del Paese — Foxconn, produttrice di elettronica a cominciare dagli smartphone della Apple, un milione e duecentomila lavoratori — ha iniziato nelle sue fabbriche un processo di elezione di sindacati indipendenti. È quel genere di notizia che illumina i punti di svolta. La nascita di una rappresentanza sindacale simile a quella conosciuta in Occidente — non certa, suscettibile di essere frustrata e rinviata dal potere di Pechino ma alla lunga inevitabile — è il risultato di cambiamenti profondi avvenuti nell’economia dell’impero di mezzo. E cambiamenti ancora maggiori li provocherà  in tutto il mondo: con vantaggi, almeno nel breve periodo, per i lavoratori cinesi e per quelli dei Paesi avanzati; e con un certo numero di rischi, anche seri.
Uno studio pubblicato a fine gennaio da due economisti del Fondo monetario internazionale (Fmi), Mitali Das e Papa N’Diaye, dice che la Cina raggiungerà  tra pochi anni il cosiddetto «Punto di svolta di Lewis»: e che c’è poco che possa fare per evitarlo. Il Premio Nobel Sir Arthur Lewis calcolò il punto nel quale, in un’economia, il lavoro diventa scarso al punto da provocare un innalzamento repentino dei salari, una compressione dei profitti delle imprese industriali, una conseguente caduta degli investimenti. Secondo i due economisti, il punto di svolta dovrebbe arrivare tra il 2020 e il 2025: ma se la sindacalizzazione dovesse prendere piede e gli operai cinesi volessero lavorare meno ore di oggi, grazie anche ad aumenti salariali, potrebbe presentarsi molto prima. Non solo. Per il loro modello di previsione, i due analisti dell’Fmi hanno usato dati dell’Onu che prevedono l’inizio del declino della popolazione attiva cinese nel 2020. Succede però che l’Ufficio nazionale di Statistica di Pechino ha comunicato che già  nel 2012 la popolazione in età  lavorativa (15-59 anni) è scesa di 3,5 milioni, a 937 milioni.
Che la carenza di manodopera abbia iniziato a farsi sentire, d’altra parte, è quanto sostengono un po’ tutti gli imprenditori: è in questa situazione che di solito inizia la sindacalizzazione dei lavoratori, e per quanto la Cina sia un fenomeno unico non si vede il motivo (a parte la repressione) per il quale i suoi lavoratori dovrebbero comportarsi diversamente da tutti gli altri. D’altra parte, l’aumento dei salari è in corso da tempo. E ormai ha provocato la fine del modello basato sui bassi costi di produzione.
Secondo uno studio del Boston Consulting Group (Bcg), i salari cinesi crescono a due cifre dal 2000. Altre statistiche dicono che dal 2009 a oggi sono lievitati del 43 per cento e che il costo per unità  di lavoro in dollari è aumentato del 22 per cento dal 2007. Il vantaggio competitivo dell’economia cinese fondato sulla manodopera a basso costo è sostanzialmente stato annullato. Tanto che parecchie imprese che avevano delocalizzato (outsourcing) stanno riportando in America e in Europa le produzioni. Il fenomeno dell’offshoring, del delocalizzare, si è trasformato nel reshoring. Sempre secondo il Bcg, tra le imprese americane con un fatturato superiore al miliardo di dollari, il 37 per cento pianifica o considera di riportare in America produzioni aperte anni fa in Cina. Tra le grandi imprese con fatturato sopra i dieci miliardi, la percentuale sale al 48. La stessa tendenza vale per le aziende europee. Il concetto di «Cina fabbrica del mondo» è insomma già  in via di ridefinizione avanzata.
La stessa Foxconn, per dire, sta aprendo fabbriche in Brasile, Europa dell’Est, Nord America. Lenovo, il gigante cinese che comprò da Ibm la produzione del notebook ThinkPad, a giorni riaprirà  una fabbrica nella Carolina del Nord. Uno dei gruppi che avevano con più convinzione decentrato fuori dagli Stati Uniti, General Electric, ha invertito la marcia: l’outsourcing è «il modello di ieri», dice il suo boss, Jeff Immelt.
I lavoratori cinesi, dunque, migliorano le loro condizioni di vita e di lavoro, se i nuovi leader del Paese — il presidente Xi Jinping e il prossimo premier Li Keqiang — lo permetteranno: finora, ogni volta che gli operai di una fabbrica mostravano segni di insoddisfazione, il partito spingeva per immediati aumenti salariali, per mantenere la pace sociale; il voto per creare sindacati indipendenti e non legati al partito comunista è però cosa ben più seria, in un Paese che ha persino paura del voto dei cittadini nei talent-show. I lavoratori occidentali, per parte loro, potranno preoccuparsi meno dei posti di lavoro esportati in Cina. Sul lato dei rischi, invece, c’è che Pechino dovrà  affrontare il cambiamento del modello di sviluppo del Paese, trovare forme di crescita diverse da quella sostenuta dalla manodopera a buon mercato. Il che significa un’economia meno centralizzata e di comando: non è affatto detto che il complicato sistema di potere del Paese lo voglia o sia in grado di farlo. Il guaio è che l’alternativa potrebbe essere caotica. È il grande pericolo della «fabbrica del mondo» che diventa obsoleta.


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