by Sergio Segio | 27 Febbraio 2013 9:15
Ni olvido ni perdòn. Né oblio né perdono. Era questo uno degli slogan politici dell’Argentina degli anni settanta contro i militari responsabili del golpe del 1955 contro il governo democratico di J. D. Peròn. Lo slogan potrebbe tornare utile a racchiudere il senso disseminato da Django Unchained rispetto alla schiavitù e al suo ruolo nella storia degli Stati Uniti: impossibile dimenticare, impossibile perdonare. È questo forse il senso veicolato dalla scena finale del film: in cui Django, uno schiavo libero dalle sue catene, consuma il suo odio-vendetta nei confronti non solo dei padroni bianchi, ma di tutto il sistema della piantagione. Candyland deve saltare in aria nella sua totalità : non c’è nulla da salvare; non basta fuggire o salvare la donna amata. Si tratta dunque di un film ferocemente anti «politically correct», qualcosa che non può sorprendere chi conosce lo stile pop e corrosivo di Tarantino.
Nessuna riconciliazione
Nel film, Django e Broomhilda, armati da un odio di tipo fanoniano, ovvero non affatto mosso da «grandi ideali» o da «retoriche progressiste», come altri celebri schiavi della storia del cinema, sono agiti dalla rabbia allo stato puro dei dannati e quindi da una volontà tutt’altro che conciliatrice e misericordiosa. Così essi vengono a configurarsi come l’esatto rovescio della coppia Obama-Michelle. Non possono quindi stupire le critiche al film negli Stati Uniti; niente di più lontano dal clima di «politically correct» post-razziale dei tempi di Obama che l’anima rancorosa, vendicativa e punitiva di Django. Emblematica ancora di questa particolare struttura del sentire è la scena finale: dove Django procede al suo personale atto riparatorio vestito con gli abiti del padrone.
Sta qui una parte importante della politica della rappresentazione promossa dal film: occorre nominare la razza – anche attraverso il controverso significante nigger – affinché emergano i suoi effetti nella costituzione materiale del presente. Django dunque non fa che demolire in modo sporco, ironico e violento la struttura montata dall’igiene linguistica del politically correct post-razziale; ovvero, di una catena di significazione che non fa che presentarci la razza come un elemento residuale, come una parentesi (primitiva, irrazionale) della storia (americana, moderna). Si tratta di un film profondamente disturbante del senso comune sul razzismo. Django sporca con le cattive maniere le acque di questa igiene razziale linguistica, così come la lotta cruenta tra i Mandingo cosparge di sangue nero il glamour dell’etereo salotto dello schiavista Calvin Candie; un contrasto pungente – amplificato dal rumore delle ossa rotte dei Mandingo – attraverso cui Tarantino riesce a decostruire in termini puramente visuali il feticismo dei prodotti della società della piantagione, ovvero a porre in evidenza la violenza fisica su cui si fondava il modo di produzione schiavistico.
Nei termini di Achille Mbembe, si potrebbe dire che Django contribuisce a svelare il lato necropolitico della modernità (la politica di morte fisica e sociale praticata dal colonialismo) come il rovescio costitutivo di quello che Foucault ha chiamato la biopolitica occidentale. Il film dunque viene a collocarsi sulla traccia postcoloniale aperta dalla celebre ingiunzione storica di Césaire e Fanon ad abbandonare l’Europa-Occidente. Django, una sorta di riedizione in celluloide degli schiavi ribelli dell’800 come Nat Turner o Gabriel Prosser, ci consegna attraverso la sua vendetta un giudizio altrettanto radicale e lapidario: la storia degli Stati Uniti è indifendibile. Sta qui la differenza tra Django e altri film sulla schiavitù come Amistad di Steven Spielberg. Django e Broomhilda, come la schiava del romanzo Beloved di Toni Morrison, preferiscono la morte alla schiavitù: qualunque altro gesto che non sia la lotta, il marronage o la resistenza finirebbe per riconoscere il diritto del padrone.
La mitologia va in soffitta
Alcuni – come Spike Lee – hanno fatto ricorso alla (serietà della) storia per delegittimare Django. Ma in realtà l’arte radicale di Tarantino ci propone Django per delegittimare (la scrittura) della storia. Su questo punto Django sembra avere un immaginario punto di incontro con le celebri parole di Tagore (con cui lo storico dei Subaltern Studies Ranajit Guha inizia il suo La storia ai limiti della storia del mondo): levatevi di torno con la vostra storia, con i vostri miti. Ed così che Tarantino continua un discorso iniziato con Bastardi senza gloria. In questo film, infatti, egli si proponeva di distruggere tutta la mitologia riguardante gli esiti della Seconda Guerra mondiale: al diavolo con gli americani (eroi, liberatori), con i nazisti (emblemi del male assoluto) e con gli ebrei (vittime per definizione) così come ce li ha raccontati la storia dei vincitori; che non è che una storia scritta e fatta da bastardi senza gloria. Ed era proprio l’assenza di qualsiasi riferimento all’Urss a farci capire che ci troviamo all’interno di un racconto ben preciso, i cui codici non sono quelli della tipica (ri)scrittura storica. È chiaro che Tarantino non è interessato ad opporre una visione della storia ad un’altra.
In Django la decostruzione di ogni senso della Storia procede con un tono ironico simile: al diavolo con i bianchi (tutti razzisti), con i neri (tutte vittime) e con l’America precedente alla Guerra Civile, ovvero con una società costruita dal senso comune dominante come premoderna e residuale e quindi come destinata all’inevitabile sconfitta per mano dell’America vera, quella antischiavista, progressista, moderna e repubblicana (è questo, per esempio, il sottotesto di Amistad di Spielberg). In un film come nell’altro, Tarantino procede alla distruzione dei miti con la stessa strategia postmoderna – e ora decisamente postcoloniale – di decostruzione: la forzatura dei cliché e degli stereotipi mediante la messa in evidenza del loro aspetto grottesco. È proprio la volontà di caricare, di saturare, di senso i cliché fino a farli esplodere, ciò che ci consente di liberarci di essi, di distruggere il senso che essi intendono veicolare. Ed è proprio attraverso tale strategia che l’ironia postmoderna si propone come critica della doxa, dell’arbitrarietà di ogni sistema di significato. Come la pop art di Andy Warhol o di Jean-Michel Basquiat, la strategia discorsiva di Tarantino è stata sempre quella di mettere a critica l’ideologia o i valori dominanti della società contemporanea attraverso una sovra-esposizione ironica dei suoi stessi miti. Si pensi, per esempio, a due scene di Django: alla satira del Ku Klux Klan (che rimanda non tanto a una presunta realtà fuori dai testi quanto ai film di David W. Griffith The Birth of a Nation e Intolerance) o al fatto che a liberare lo schiavo nero non è un americano, ma un tedesco (invertendo in questo modo una logica testuale cinematografica che ha ripetuto fino alla stanchezza la vicenda di tedeschi liberati dagli americani). Si può concludere – contro Spike Lee e altri – che uno degli scopi di Django è gonfiare il significante della razza dei suoi propri contenuti fino a renderlo ridicolo, fino a farlo scoppiare nel non-senso.
Lotta di classe e significato
Così facendo il cinema di Tarantino non fa che riportare i miti (i significati storici) allo status di meri significanti. Film come Bastardi senza gloria e Django ci ricordano una delle eredità principali dei movimenti culturali del ’68: la lotta di classe, la lotta politica, non può prescindere dalla lotta per il significato, per il senso. Detto altrimenti, liberarsi dal linguaggio, disidentificarsi dalla soggettività istituita, è la condizione iniziale di qualunque soggettivazione politica. È questo il modo attraverso cui Tarantino fa sua la sollecitazione di Benjamin: all’estetizzazione della politica la politicizzazione dell’arte. È chiaro che l’idea della politica che emana dai film di Tarantino è molto diversa da quella di Benjamin, ma Tarantino segue fino in fondo questa premessa: l’arte, il cinema sono gli strumenti principali attraverso cui distruggere la mitologia diffusa dalla politica e dalle industrie culturali, la storia dei vincitori, le soggettività collettive. Non a caso è proprio in un vecchio cinema di Parigi che si consuma l’atto finale di Bastardi senza gloria: l’esplosione dei miti attraverso cui è stata scritta buona parte della storia del dopoguerra. Tarantino affida all’arte il ruolo di liberarci dalla storia, di farla saltare per aria e di trasformarla in cumulo di frammenti, di rovine.
È la catastrofe necessaria, l’apocalisse, da cui potrà sorgere un mondo nuovo. Ed è quanto ci dice anche la scena finale di Django: la sua liberazione (e di tutti i dannati della terra) dipende dalla riduzione di Candyland (della storia coloniale occidentale moderna) a un cumulo di macerie. In breve: non vi sarà mai libertà senza lo scoppio della Struttura materiale e simbolica della Storia (ovvero, dell’Europa, dell’Occidente). D’altronde si tratta di qualcosa suggerito anche dalla stessa parte di Tarantino nel film: ricordiamoci che Django comincia la sua liberazione finale solo dopo aver fatto saltare in aria il personaggio interpretato dal regista.
In questo senso, Django parla anche all’Europa. Anche il vecchio continente ha la sua Candyland nascosta: la sua secolare storia imperiale-coloniale. Ma ad eccezione del formidabile Caché di Haneke e di qualche altro isolato esempio, il cinema europeo sembra ancora inibito dalla violenza simbolica della Struttura, ovvero dall’oblio e dalla rimozione. Si pensi, da questo punto di vista, alle resistenze che incontra in Europa la piena assunzione del concetto di razza come significante o dispositivo chiave della sua storia e quindi della costituzione materiale del proprio presente. Con Django e Tarantino crediamo che sia ora anche in Europa di nominare la razza. Si tratta di uno dei modi obbligati attraverso cui cominciare a far saltare la Struttura e i suoi attuali e diversi dispositivi di comando: materiali e simbolici.
Apparso anche sul sito del collettivo Uninomade
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SCAFFALI
La politica profana di Daniel Bensaà¯d
Un saggio che si snoda attorno ad alcuni temi – la precarietà la crisi della democrazia -, ma costruito con l’obiettivo di innovare il pensiero critico messo in ginocchio dalla globalizzazione. È questo l’obiettivo del volume «Elogio della politica profana» di Daniel Bensaà¯d (Edizioni Alegre, pp. 397, euro 22). Bensaà¯d è stato un filosofo francese «fuori dal coro». In primo luogo perché preferiva sottolineare la dimensione «militante» della sua vita; ma anche perché non nascondeva che la sua costellazione culturale era rappresentata dal marxismo eterodosso novecentesco. La precarietà , la crisi della democrazia e la globalizzazione sono quindi analizzata alla luce della critica dell’economia politica.
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