L’ASTA ELETTORALE

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La parola è come la pallovale in una partita di rugby al punto che il linguaggio risulta inarticolato, incapace di imbastire un discorso. Tanto impoverito, sbiadito da non poter più esprimere significati. Esso si manifesta soltanto con un alternarsi di pulsioni aggressive e di crolli di tensione. Affermazioni e negazioni.
Si arriva a questa obiettiva conclusione seguendo la nostra campagna elettorale, non con uno spirito di parte, ma con la remissività  di un telespettatore o di un lettore di giornali imprigionato nel groviglio quotidiano delle affermazioni di Berlusconi, delle smentite di Bersani, delle precisazioni di Monti, delle negazioni di Vendola, delle accuse di Ingroia, delle urla di Grillo; e ancora, in senso contrario, delle affermazioni di Bersani smentite da Berlusconi, respinte da Monti, ridicolizzate da Ingroia, contestate da Vendola, deformate da Grillo; e ancora degli ossessivi «Monti dice che…», «Bersani dice che…», «Vendola dice che…», «Berlusconi dice che…». Ripetuti annunci seguiti da frasi didascaliche adeguate al telegiornale. Uno afferma, l’altro nega, e così via, non all’infinito, per fortuna, ma fino al voto ormai in vista. (Grillo non dice, impreca).
Non c’è ombra di programma nel fiume di parole che arriva all’imminente elettore. Ma un rosario di battute accompagnate da espressioni scettiche, insultanti, sardoniche, ringhiose, sprezzanti, conniventi, ammiccanti, insomma promettenti. Ed è spesso da queste espressioni, dalla mimica e non dalle parole moribonde, che nascono i pronostici su future alleanze o tenzoni. Più che una campagna elettorale sembra una saga dell’intolleranza. Non si impone tanto un dato discorso a esclusione d’altri discorsi, ma si celebra il rifiuto del discorso.
A volte sembra di assistere a un’asta pubblica. È un’idea che non mi è mai venuta seguendo le campagne elettorali in tanti angoli del mondo, dall’India alla Gran Bretagna, dall’Egitto alla Francia, dal Portogallo alla Germania, da Israele alla Polonia.. .. Nelle vendite all’incanto i candidati all’acquisto si esprimono con segni o cifre. Per conquistare voti italiani si usano le tasse come moneta di scambio. C’è chi si impegna a rimborsare quelle già  pagate, e chi promette di abbassarle. E c’è chi sventola anche i vergognosi debiti dello Stato con le aziende private. Si giura che saranno infine saldati. L’elettore rischia di perdersi nel valutare le offerte più vantaggiose. A chi vendersi? O non ci fa caso, convinto che le promesse non saranno mantenute.
Il linguaggio politico italiano è sempre o spesso servito a nascondere ciò che è semplice e concreto dietro i giri di parole delle astrazioni generali. Italo Calvino, nelle note sul linguaggio politico, scriveva che il diavolo è l’approssimativo. Per lui, nelle genericità , nell’imprecisione di pensiero e di linguaggio, specie se accompagnati da sicumera e petulanza, si poteva riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore, sia nei rapporti con gli altri. Il diavolo non era il complicato, ma l’approssimativo. La semplificazione a tutti i costi è infatti faciloneria. Riuscire a definire i propri dubbi, di fronte a problemi complicati, è molto più concreto che qualsiasi affermazione perentoria basata sul vuoto.
Ma sono trascorsi decenni da quando Calvino ha scritto le note sul linguaggio, e nel frattempo ai demoni tradizionali che affollano il tempio della politica si sono aggiunti i mercanti, i guitti, e i giudici spogliatisi troppo in fretta della toga per scendere nell’arena elettorale. Da qui l’aggravarsi della malattia che colpisce la parola, facile strumento di interessi o di ambizioni individuali e di branco. Per chi crede nella politica, motore essenziale della democrazia, è un guaio molto serio.


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