«Mi dimetterò da segretario» Ma ora il partito blinda il leader

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Eppure lui, il «Capo», va a sedersi a fianco del presunto usurpatore. Una sorta di investitura carismatica indiscutibile. Perché tra l’altro, Maroni è quello che ha dato concretezza al più antico dei sogni leghisti, quello non riuscito nemmeno a Bossi: guidare la Lombardia. Anche se esiste il breve precedente, tra il 2004 e il 2005, di Paolo Arrigoni. Non che il vecchio leader abbia condiviso proprio tutto del nuovo corso. Anzi. Nei giorni scorsi, nei corridoi del quartier generale leghista, l’uomo di Gemonio tuonava contro l’eccessiva virtualità  della campagna elettorale: «Ma quale Twitter? Ma quale Facebook? Le piazze sono sempre state nostre. Nostre. Oggi, facciamo gli incontri nelle ville. E le piazze son di qualcun altro».
Resta il fatto che oggi è difficile, quasi impossibile, immaginare una Lega non guidata da Roberto Maroni. Lui ha messo le mani avanti non dieci ma cento volte: «Se sarò eletto presidente della Lombardia mi dimetterò». E se non fosse eletto? «Mi dimetterò lo stesso». Se glielo lasceranno fare. Perché ormai è chiaro. Nelle prossime ore la chiamata alla responsabilità  si farà  più pressante. Nelle ultime settimane, in pratica dal suo annuncio di dimissioni, non c’era un solo leghista che non si chiedesse perché diavolo Maroni avesse fatto quell’annuncio: «E chi ci mettiamo? E poi perché».
Ma è di ieri il fatto che meglio di ogni altro illumina la verità , e cioè che «il Bobo» resterà  il segretario federale della Lega ancora per un bel pezzo. In mattinata, Flavio Tosi, sindaco di Verona nonché guida del movimento in Veneto, intervistato da Repubblica, spiega che se la sfida di Maroni «andasse bene, Bobo deve restare segretario. Ha delineato lui la strategia, e ha fatto la scelta vincente. Non sento il bisogno di convocare il congresso per eleggere un nuovo leader: il movimento ha bisogno di serenità , non delle tensioni che immancabilmente verrebbero fuori».
Poi, nel primo pomeriggio, il governatore Luca Zaia, l’altro uomo forte del Veneto — la regione in cui più la Lega ha sofferto il turno elettorale — convoca una conferenza stampa in cui cannoneggia senza reticenze proprio Tosi. Ma, anche per lui, la soluzione è una sola. E la dice: «Maroni non dovrebbe lasciare la segreteria, sarebbe un errore, ma deve porsi come figura di garanzia, soprattutto in Veneto dove la situazione è incandescente». Di più: «L’investitura che Maroni ha avuto dal Congresso federale è importante: se la sfida di Tosi era di compattare il partito in Veneto e non c’è riuscito, ora la sfida di Maroni è quella di trovare la strada per farlo».
Tra l’altro, non bastasse la centralità  acquisita dal segretario negli ultimi otto mesi, esiste anche l’altro versante della questione. Chi disporrebbe dell’autorevolezza per completare la transizione e medicare le ferite che risalgono all’ultima fase della guida bossiana? Dovrebbe essere un Veneto, si diceva fino a qualche tempo fa, per contenere la sempre contestata egemonia lombarda sul movimento. Eppure, proprio il Veneto oggi è il Far West della Lega, il territorio in cui le tensioni si sono trasformate in crollo dei consensi. Matteo Salvini, allora? «Troppo giovane, troppo milanese, troppo recente la responsabilità  di segretario lombardo». Insomma: Roberto Maroni, ancora per un bel pezzo, è «costretto» a rimanere.


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