MARX E LOTTA DI CLASSE PER CAPIRE IL NUOVO EGITTO

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Il futuro dell’islam politico africano, arabo e levantino si gioca all’ombra delle piramidi. Qui sorse nel 1928 la Fratellanza musulmana. Dopo ottantacinque anni di radicamento nella società , di opposizione ai colonizzatori, alla monarchia e ai regimi militari socialisteggianti e neutralisti (Nasser) o liberisti e filoccidentali (Sadat, Mubarak), di persecuzioni e patteggiamenti con il potere costituito, ora i Fratelli sono chiamati a governare. La rivolta di popolo che il 25 gennaio 2011 ha travolto Mubarak ha proiettato i Fratelli a occupare lo spazio scavato dai rivoluzionari della prima ora, privi di un capo, di un progetto, di una struttura unitaria. Quale massima forza organizzata della società  egiziana, la Fratellanza ha sveltamente allestito un suo braccio politico, il partito Libertà  e giustizia, ha vinto le sei elezioni finora svoltesi nel “nuovo” Egitto e sembra certa di affermarsi nello scrutinio politico di aprile. Per meriti propri e per l’inconsistenza delle opposizioni, un misto di fellul (avanzi di regime) riciclati, liberali, socialisti, nasserian-nazionalisti, cristiani copti e giovani reduci di Piazza Tahrir, con scarso radicamento nel paese ma pal-
pabile insofferenza reciproca. In Occidente li chiamiamo laici, quindi democratici, per distinguerli dagli islamisti in odore di sovversivismo teocratico e dalla galassia salafita riconvertita alla politica, spesso confusa con i jihadisti. Quasi l’avversione all’islamismo valesse la patente di laicità . Per non farci mancare nulla, sullo slancio del comparativismo assegniamo ai Fratelli il centro, ai laici la sinistra e ai salafiti la destra, scambiando la rivoluzione egiziana per quella francese.
Le analogie traviano. Poiché dal primo faraone Menes (circa 3.150 a. C.) a Morsi non risulta che l’Egitto sia mai stato una democrazia liberale, le equazioni correnti nei media occidentali paiono smentite. È un fatto che il potere dei Fratelli — come la robusta influenza dei salafiti — scaturisce dalle
urne. È altrettanto incontestabile che esso sia imperniato sul primo presidente democraticamente eletto della storia egiziana. Le opposizioni, sconfitte al voto, puntano sui tribunali e sulla piazza. Questo non significa affatto che i Fratelli siano democratici per vocazione o che laici e copti non lo siano. Esprime la cogenza dei ruoli: alla Fratellanza di governo e ai salafiti le urne convengono (almeno per ora). Alle opposizioni le elezioni sono andate e forse andranno ancora di traverso.
La stabilizzazione democratica dell’Egitto presuppone la legittimazione reciproca fra sei poteri: presidente, parlamento, tribunali, militari, burocrazia e piazza. Assistiamo invece alla polarizzazione fra islamisti e antislamisti. In mezzo, il partito del sofà  (kanaba), gli attendisti che fiutano l’aria per schierarsi col vincitore. Al coperto, lo Stato profondo, che aggrega militari, finanzieri e imprenditori — talvolta le tre categorie si riflettono nella stessa persona.
La vera sfida per i Fratelli è la disastrata economia nazionale. Per un paese di circa 85 milioni di anime — oltre ai 6 milioni e mezzo in diaspora — che è il massimo importatore mondiale di grano e che pompa dall’estero più energia di quanta ne produca, le conseguenze
economiche della transizione sono di ardua gestione. La crescita è assai ridotta (attorno al 2% per quest’anno, forse meno il prossimo), la disoccupazione ufficiale al 12,5%, il turismo agonizza. Restano i proventi del Canale di Suez, le declinanti rimesse degli emigrati e poco altro. Con le riserve di valuta pregiata precipitate da 36 a meno di 15 miliardi di dollari nel biennio post-Mubarak e con la lira che si svaluta ogni giorno, non resta che contare sul fraterno aiuto del Qatar, peloso sponsor dei Fratelli.
L’emergenza economica inasprisce la contrapposizione politica, esaspera lo scontro sociale. Del quale i nostri media inclinano a trascurare il rilievo nella genesi e nell’evoluzione dei moti che hanno sconvolto l’Egitto. Le categorie euristiche occidentali, impiegate a sproposito in altri campi, potrebbero utilmente applicarsi alla radice socioeconomica della rivoluzione egiziana, come di altre “primavere”. Qui possono soccorrerci le teorie di un pensatore iperoccidentale come il renano Karl Marx: le insurrezioni tunisina ed egiziana sono anche lotta di classe. È la tesi del geografo Habib Ayeb, per il quale «in entrambi i casi si è potuto osservare il rifiuto di una popolazione emarginata a continuare a vivere nella marginalità ». Rivolta degli oppressi e degli affamati, incardinata in specifici teatri territoriali, dalla negletta Nubia fino ai labirinti del Cairo e alle zone depresse del Delta. Nella cui area industriale centrale, a Mahalla al-Kubra, scoppiarono nel 2006 gli scioperi operai che preannunciavano la crisi finale del regime.
Allargando l’orizzonte, scopriamo che l’incerta transizione egiziana sta contribuendo a destabilizzare il territorio nazionale. Specie nel Sinai: la penisola cuscinetto tra Egitto e Israele, con la Striscia di Gaza in mano a Hamas, filiale palestinese dei Fratelli, è terra di scorribande e attentati terroristici. Con risultati devastanti per il turismo sul Mar Rosso. Le locali tribù beduine diffidano degli “egiziani”, come tengono a definire gli altri abitanti del paese. Sentimento condiviso dai confratelli del Deserto occidentale, a ridosso della Cirenaica in ebollizione. Se poi consideriamo le guerre sudanesi e le dispute sulle acque del grande fiume attorno al quale è fiorita una delle massime civiltà  della storia, si trae che nessuna frontiera egiziana è tranquilla. La transizione alla democrazia sarà  lunga, sempre che non deragli.


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